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Per approfondire
Il culto di Santa Aurelia Marcia nella chiesa di San Giuseppe di Luzzi
Controversie per una martire
Un recente studio del prof. Colafemmina dell’Università di Bari ha messo in dubbio il martirio della Santa ma non sembra aver scalfito in alcun modo la fede popolare . Come le spoglie mortali sono giunte dalle catacombe di S. Sebastiano al centro della provincia di Cosenza – Il cardinale Giuseppe Firrao e l’impeto di nostalgia – L’arrivo dell’urna
Non avrebbe subito alcun martirio Aurelia Marcia, la nobile romana morta, a 19 anni, l’undici luglio, durante la decima persecuzione di Diocleziano (IV secolo – 303 / 305).
A chi appartengono, dunque, i resti mortali, che si venerano a Luzzi nella chiesa di San Giuseppe, fin dal 1744, quando vi furono trasportati dalle catacombe di S. Sebastiano, per volontà del cardinale Giuseppe Firrao (Luzzi 1669 Roma 1744)?
Le affermazioni del prof. Colafemmina dell’Università di Bari contenute nello studio "Un’iscrizione paleocristiana e il culto di S. Aurelia Marcia a Luzzi” se hanno ingenerato dubbi e sospetti su un piano generale, non hanno minimamente influito in coloro i quali /e sono tanti, non solo a Luzzi), ancora oggi amano trubutare alla Santa Martire i segni di una devozione antica spinti da fede imperitura. D’altra parte il Mistero non è stato ancora svelato ed è forse tutto racchiuso nell’ampolla rinvenuta nel loculo che per quindici secoli ha conservato le spoglie mortali di "Aurelia Marcia que vixit anni XVIII defuncta est die V, idus Iulias”, come si legge sulla lapide, che copriva il sepolcro. Secondo il prof. Colafemmina l’ampolla contiene i “liquidi odorosi” ricordati da Prudentio Cath.(10.172), ossia gli unguenti odorosi rinvenuti nei cimiteri romani. Gli agiografi della Santa, invece, sono certi che nel vasetto ovale (phiala) è conservato il sangue di Aurelia Marcia ossia la prova inconfutabile (alla nobile fanciulla fu mozzato il capo dopo atroci tormenti) del subìto martirio. Non avrebbero invece convinto i soli simboli trovati sulla lapide (che ancora si conserva nella cappella della Santa) una colomba che tiene nel becco un ramoscello d’olivo, una torre (o un albero?) sormontata da palme e un leone (o un agnello?) che assale la torre.
Il culto della martire non è venuto mai meno dopo circa due secoli e mezzo, anzi ogni anno che passa sembra ritrovare nuovo vigore. E, come scrisse il poeta luzzese Luigi Genesio Coppa in “Porpore Latine” (S.A.E.D – Alighieri 1936 – XIV) … “or che il settembre ride / d’opimi tralci rosseggianti al sol… / …Dalle cime del Sila aspre ed algenti / scendono a te le schiere montanare: / vince la fede l’urlo dei torrenti, / vince la fede turbini e fiumare.”
In una nota lo stesso Genesio Coppa spiega: “Nel mese delle vendemmie, allietato dai caratteristici canti a voci alternate (a “lassa e piglia”, n.d.r.) delle vignaiole, hanno luogo ogni anno solenni festeggiamenti in onore della Santa e ad essi accorrono numerosi pellegrini dai paesi circostanti (Bisignano, Acri, Rose, Montalto Uffugo, Lattarico, Torano Castello, Cosenza) e dalle più lontane borgate silane (specie Longobucco, Paduli, ndr) e poi dal Rossanese. E’ tradizionale il saluto con le campane agli stanchi gruppi, giungenti a piedi per le disagevoli vie della Montagne”.
Ma com’è potuto accadere che i resti mortali di Aurelia Marcia siano arrivati proprio a Luzzi? Per rispondere all’interrogativo occorre approfondire la conoscenza dei principi Firrao, feudatari del comune in provincia di Cosenza. Diremo innanzitutto di Cesare Firrao (dell’antica famiglia di Cesare, figliolo Tommaso e fratello di Pietro, principi di Sant’Agata) che nacque il 21 giugno 1668 nella “Terra delli Luzzi”, chiamata anticamente “Thebae Lucaniae”, feudo posseduto dalla sua Casa nella Calabria Citeriore, e morì in Sambucina il 9 novembre 1744. Il riferimento a Cesare Firrao, (accademico cosentino, del quale tra le tante cose a lui attribuite si conserva una raccolta di rime, pubblicate in Lucca appresso il Frediani, 1728, con licenza dei Superiori, a cura di Don Tommaso Firrao, principe di Sant’Agata) ci sembra necessario, per meglio far comprendere il clima nel quale si viveva nel 1744, quando, per volontà del cardinale Firrao Senior, le spoglie di S. Aurelia giunsero a Luzzi, laddove c’era l’Abbazia Cistercense della Sambucina, casa madre dell’Ordine nel Meridione.
Nell’introduzione alla raccolta delle rime, (conservate gelosamente dal prof. Francesco Maria Bruno) si legge infatti che Cesare Firrao, dopo essere stato molte volte a Napoli, a contatto con i letterati del tempo, “si ritrovava sovente in un antichissimo monisterio dei Padri Cistercensi chiamato della Sambucina …” celebre per la lunga abitazione fattavi dall’Abbate Gioacchino (che ivi compose buona parte delle sue profezie) come attesta il Padre Elia d’Amato, nel suo libro Pantopologia Calabriae) e per la tomba che in quella chiesa si osserva di Piero Lombardo, Maestro delle sentenze e di Accursio.
Ma torniamo al 1744 agli avvenimenti della traslazione da Roma a Luzzi del corpo della martire Aurelia, ricostruiti dal parroco don Michele Campise e pubblicati nel 1917 a Milano dalla casa editrice Ambrosiana con l’imprimatur del vescovo di San Marco Argentano, Salvatore Scanu.
Del lavoro di don Michele, prete illuminato, si conservano poche copie nella biblioteca del dottor Giuseppe Coppa, già ufficiale sanitario. Don Michele Campise con acume e spregiudicata sincerità, spiega che il cardinale Giuseppe Firrao senior (da non confondere con il nipote, omonimo, anch’egli cardinale e arcivescovo di Napoli nato a Napoli il 23 luglio 1736 e morto nella città partenopea il 24 gennaio 1830), giunto vicino ai 75 anni, nel 1744, fu preso come da un impeto di nostalgia per la sua Luzzi e decise di arricchire una chiesa tutta sua, cioè di jus patronato della sua famiglia, con il corpo della Santa. Di Giuseppe Firrao nella chiesa matrice di Santa Maria (che egli stesso aveva voluto fosse la più importante di Luzzi, avendovi ricevuto il battesimo e che attualmente è retta dall’arciprete don Umile Plastina) si conserva un ritratto che lo rappresenta di viso magro, snello nella persona, con le spalle larghe sulle quali campeggia una testa relativamente piccola, i capelli spioventi e brizzolati, pura e dolce nei contorni dell’ovale e del profilo.
A soli 26 anni era stato introdotto alla carriera prelatizia dal Papa Innocenzo XII. Fu incaricato della vice legazione di Urbino e del governo delle città del dominio pontificio tra le quali Loreto e, più tardi, sotto Clemente XV, Ancona, Civitavecchia, Viterbo, e Perugia. Visitatore apostolico delle provincie dell’Umbria e della Marca. Nel 1714 fu Nunzio straordinario del Portogallo sotto il Pontificato di Benedetto XII. Clemente XII, dopo averlo promosso vescovo di Aversa, lo creò prete cardinale. Nel 1733 tornò a Roma dove fu nominato al posto del defunto cardinale Antonio Banchieri, Segretario di Stato. Partecipò al conclave di Benedetto XIV e, nel 1744, morì a Roma a 75 anni non ancora compiuti dopo 13 anni di cardinalato. E’ sepolto nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme.
Troppi erano stati gli impegni e assai delicati (ne abbiamo citato solo alcuni) perché gli restasse tempo di pensare al piccolo borgo natio, così lontano. Ma prima che la sua schiatta si estinguesse con donna Livia Firrao, principessa di Luzzi che, nel 1815, andò sposa a don Tommaso Sanseverino, principe di Bisignano, venendo, così confuso, il titolo di feudatario di Luzzi, il cardinale volle dare un segno tangibile dell’amore per la sua terra e pensò ad un regalo, prezioso per il nipote don Piero Maria Firrao, principe feudatario di Luzzi dell’epoca, che, avuta la notizia del trasferimento della Martire, la comunicò al cappellano, della sua chiesa di San Giuseppe, don Nicola Zaccano, sacerdote zelante e pio, che iniziò i preparativi per ricevere la Santa.
Su disposizione del cardinale, intanto, il corpo della vergine romana era stato prelevato dalle catacombe di San Sebastiano, rivestito di nobili panni e sistemato in un’urna dorata fatta costruire appositamente dal cardinale che fu portata a Civitavecchia e avviata, via mare, verso Paola. Scrive il prof. Ettore Parise (facendo riferimento alla testimonianza scritta del suo antenato l’arciprete don Antonio Parise) che invano alcuni giovani tentarono di asportare l’urna che giaceva a Paola, sulla riva in attesa che i luzzesi venissero a prelevarla. L’artistico sepolcro diventava sempre più pesante, mentre si trasformò in una piuma quando fu prelevato dai Luzzesi.
All’alba del 2 febbraio 1744 l’urna arrivò, a Luzzi (dove, riferisce don Campise) spontaneamente si formò una processione con le Confraternite precedute da tamburi e altri strumenti, stendardi, bandiere, lampioni, fanciulli e fanciulle e più di 30 preti vestiti di preziosi paramenti e tutto il paese in abito da festa. Vi si aggiunse numerosissima folla formata da abitanti dei paesi circonvicini ed un numero immenso di pastori con le loro zampogne. Finalmente l’urna raggiunse la chiesa di San Giuseppe. La devozione crebbe di anno in anno. Nel 1794, come risulta dai registri, alla Santa furono donate 150 pecore e 120 capre nonché molte vacche, tanto che fu necessario affidarle ad un guardiano. Si formò così la “mandra di Sant’Aurelia” che, per devozione, i Luzzesi lasciavano pascolare dovunque. E non pochi furono i miracoli attribuiti alla Martire. Il parroco Campise ne cita moltissimi con dovizia di particolari, comprovati dalle dichiarazioni sottoscritte dai beneficiati. Con i miracoli si moltiplicarono i doni, consistenti anche in oggetti d’oro, in preziosi di ogni genere, che formarono il tesoro di S. Aurelia.
La chiesa di S. Giuseppe fu danneggiata dai terremoti del 1905 e del 1908, ma sempre, con l’aiuto dei fedeli si riparò ai danni. Il 22 agosto 1909 l’altare maggiore fu inaugurato dal vicario generale della diocesi di San Marco Argentano e consacrato poi dal vescovo Scanu il 24 dicembre 1911, quando fu anche inaugurata la nuova facciata della chiesa con l’orologio. Ma il flagello della Calabria, il terremoto, si ripeté nel 1913 con gravi conseguenze anche per tutte le chiese, compresa S. Giuseppe.
Nel 1934 dopo che ladri sacrileghi rubarono i preziosi ex-voti (il tesoro di Santa Aurelia), al fine di evitare altre brutte sorprese fu incaricato, Salvatore Fazio, un esperto artigiano luzzese, particolarmente bravo nella lavorazione del ferro battuto, di realizzare una cancellata che oggi viene definita una vera e propria opera d’arte. In quell’anno si lavorò per nuovi restauri e vale la pena ricordare che la facciata fu completamente rifatta da maestranze locali. Degne di nota le decorazioni (che ancora si possono ammirare) della facciata, opera del maestro Giuseppe De Bonis, scomparso qualche anno fa. Questi lavori furono fatti a cura del parroco don Settimio Leone il quale poi negli anni dal 1957 al 1966 provvide a rendere com’è oggi la torre campanaria con i quattro orologi che hanno sostituito l’unico esistente sulla facciate, e che era andato in rovina, e realizzò un salone da adibire a casa del pellegrino.
Fecondo fu il periodo di don Settimio ed ancora vivo e indelebile è il ricordo della sua generosa azione pastorale.
San Giuseppe fu poi retta da don Armando Perna, il… “prete santo”… che, dopo morto, a maggio del 1972, fu seppellito a furore di popolo, nella sua chiesa dell’Immacolata.
Trasferito poi al cimitero per volere del vescovo del tempo, don Armando rimane nel cuore del popolo di Dio come esempio fulgente di ascetica spiritualità.
Di lui, artista, restano due affreschi che furono completati dopo l’improvvisa morte del pittore prof. Emilio Iuso e alcune tele, nonché scritti, e numerosi documentari cinematografici. Il tutto è conservato dal prof. Filippo De Bonis, che ha sposato una sorella di don Armando…
Ora S. Giuseppe è retta da don Francesco Fiore, parroco dell’Immacolata. Ammirevole la sua azione pastorale e proficuo l’impegno, la Chiesa è in uno stato di pericoloso degrado. Una richiesta per la realizzazione in locali già esistenti di una “Casa del Pellegrino” e di restauri, giace inevasa da anni presso l’assessore ai beni culturali della Regione Calabria. Intanto le infiltrazioni d’acqua stanno mandando in rovina gli affreschi del famoso pittore di Rose, ma sposato e morto a Luzzi, prof Emilio Iuso. Altrettanto dicasi delle decorazioni (belle da vedere) di cui la chiesa è stracolma. Anche le tele di Diego Pesco (1804) e del più famoso Giuseppe Cosenza (Luzzi 1846 – New York 1922), potrebbero fare una brutta fine. Per fortuna una tela del ‘600 napoletano raffigurante San Gennaro (una di simile fattura si può ammirare al Museo del Prado di Madrid) opera di Andrea Vaccaro (1604-1670) si trova nel gabinetto di restauro della Soprintendenza di Cosenza. Nella chiesa si conservano pure due pilette marmoree del 1700. Sui dipinto del ‘600 napoletano esistenti a Luzzi ha pubblicato di recente uno studio il pittore, prof. Tarcisio Pingitore, Ispettore onorario alle Antichità.
La Chiesa tutta ha bisogno di urgenti restauri prima che sia troppo tardi. E per dirla, di nuovo, col poeta Genesio Coppa: “or che dai poggi in festa si divide / l’alterno canto delle vignaiole, / e risoluta, pria a noi s’invole / la rondinella le sue gronde fide… / del dono, onde a te furon le agresti / genti a disio, le culte in gran dispetto, / grate or desse s’infiorano l’altare”, la tradizione della festa di S. Aurelia, dopo 239 anni, si rinnova con immutato fervore. A conclusione del novenario durante il quale al suono dell’organo si canta il “Viva tutti gridiamo!” (parole del prof. don Domenico Coppa e musicista del suddiacono don Girolamo Russo, entrambi vivi nel ricordo dei fedeli), nell’artistica cappella, don Franco Fiore, ripeterà gli antichi riti della benedizione dell’acqua e dell’olio che tutti conserveranno con devozione nelle loro case. Il bacio della reliquia sarà, per i fedeli, come linfa per affrontare le traversie della vita.
Quando ai festeggiamenti civili (il comitato è ancora una volta presieduto da Raffaele Caloiero), si ripeterà la Sagra della “Pittatasima”, una focaccia che alcune anziane donne prepareranno secondo una ricetta le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Un torneo di calcio, in ricordo di Luigi Gioia e di Giorgio Pingitore, impegnerà i giovani. Lo spettacolo musicale avrà il suo clou con Mia Martini. Dopo la mezzanotte per le vie del centro storico si udrà il suono degli organetti che accompagnerà antiche nenie e balli coreografici. Il tutto nel rispetto della tradizione.
Michele Gioia
(Gazzetta del Sud – Anno XXXII – Mercoledì 31 Agosto 1983 – PAGINATRE – Pag.3)
AURELIA MARCIA*
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I
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Vergine Aurelia, or che il settembre ride
d'opimi tralci rosseggianti al sole,
e il lieto umor, che dalla vite cole,
vermiglio è come il sangue che conquide;
or che dai poggi in festa si divide
l'alterno canto delle vignaiole,
e risaluta, pria ch'a noi s'invole,
la rondinella le sue gronde fide,
​
ben questa è l'aurea conca ove volesti
tu sede e soglio al tuo dominio invitto,
delle plebi nel pio favoleggiare;
e del dono, onde a te furono le agresti
genti a disio, le culte in gran dispitto,
grate or desse t'infiorano l'altare.
II
Dalle cime del Sila aspre ed algenti
scendono a te le schiere montanare:
vince la fede l'urlo dei torrenti,
vince la fede turbini e fiumare.
Non lusinga d'ombrìa, non d'arridenti
vampe d'ascoso e dolce focolare
suadente invito a le infiammate genti
tarda il diritto e infaticato andare.
Erta non fiacca, nè torpore assonna,
quando la vecchia umanità conduce
l'aereo scampanio delle speranze.
Verso il baglior d'un'irraggiunta luce
marcia inesausta. Ahi, nel marciar s'indonna
sol dell'ebbrezza delle lontananze!
* Il corpo della martire di Cristo Aurelia Marcia si venera in Luzzi (Cosenza) nella chiesa di S. Giuseppe, già di patronato dei Principi di Bisignano.
Nel mese delle vendemmie, allietato dai caratteristici canti a voci alternate delle vignaiole, han luogo, ogni anno, solenni festeggiamenti in onore della Santa, e ad essi accorrono numerosi pellegrini dai paesi circostanti e dalle più lontane borgate silane.
E' tradizionale il saluto con le campane agli stanchi gruppi, giungenti a piedi per le disagevoli vie delle montagne.
A chiarimento del primo sonetto, è bene aggiungere che una pia leggenda, molto diffusa nel popolo e, del resto, non nuova nell'agiografia, narra come, trasportandosi dalle catacombe romane in Calabria, per volere del luzzese card. Giuseppe Firrao, l'urna contenente il corpo della Martire, essa divenisse pesantissima ogni volta che si tentasse di avvicinarla verso borghi città non gradite alla Santa, e si facesse invece lieve come piuma, si muovesse anzi miracolosamente da sola, non appena i portatori accennarono a condurla come Conca d'oro.
Conca d'oro, sempre secondo la leggenda, sarebbe l'antico nome di Luzzi. In questo particolare però, la leggenda non risponde sicuramente alla verità storica.
Si sarà trattato d'una comune denominazione popolare, giustificata dalle condizioni di feracità e floridezza delle campagne luzzesi.
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