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CESARE FIRRAO III

Nato a Luzzi di Cosenza ( 1648-1714), andava cercando la solitudine che trovò nel monastero di Sambucina. Non era affatto inesperto della tecnica metrica che si forma sui testi di Dante, Petrarca, Giovanni  Della Casa, Bembo e Tasso. Le sue Rime offrono una polimetria di sonetti e di canzoni (più sonetti) e dovunque si intuisce, si avverte il Petrarca. Il Firrao compone rime in vita e in morte per la sua Donna e lungo questo tragitto finalmente dimentica l’amato Petrarca.

Sepolcro di Cesare Firrao

Le prime notizie sulla famiglia calabrese dei Firrao risalgono alla fine del XII secolo; sulle sue origini scrisse nel 1639 il religioso cosentino fra’ Girolamo Sambiasi dell’Ordine dei Predicatori, probabilmente imparentato con quel nobile casato, o comunque molto vicino ad esso.  Il Sambiasi riteneva che la famiglia potesse vantare un’antica discendenza dal normanno Ruggiero, figlio di Rahone, da cui l’espressione «de filiis Rahonis», dalla quale deriverebbe, per contrazione, il cognome Firraone e poi Firrao.

Fu soprattutto nel corso del XVII secolo che i Firrao vissero un periodo aureo. Un ruolo di primo piano nella storia della famiglia nella discendenza di Troilo, pronipote di Ruggiero, fu quello rappresentato da Antonino,

figlio di Cesare Firrao e Vittoria Mezzacapo di Bisignano.

Stando ad un’anonima cronaca manoscritta di famiglie cosentine,  Antonino, nato «scarso di beni di fortuna», sposò la nobile Vincenza Rende di Bisignano e svolse inizialmente l’attività di esattore del ducato di San Marco, prima di diventare responsabile dell’erario di quel feudo del principe di Bisignano, Nicolò Bernardino Sanseverino; quindi esercitò la carica di Tesoriere della Provincia di Calabria Citra almeno dal 1614.  Nel 1605 sarebbe entrato a far parte della gerarchia feudale del viceregno attraverso l’acquisto della terra di Sant’Agata effettuato indirettamente dai Sanseverino di Bisignano, quindi delle terre di Mottafollone e di San Sosti, delle quali ottenne il titolo di barone.

Dal Sambiasi gli veniva riconosciuto principalmente il merito di aver fondato a sue spese, nel 1606, il convento di Santa Maria di Costantinopoli dei Frati Minori Riformati a Cosenza,  il quale sorgeva sui ruderi dell’ex monastero di Santa Maria Maddalena, di proprietà delle Clarisse.

In questa ascesa sociale il suo erede Cesare fu altrettanto efficiente: dopo aver sposato nel 1605 la nobile cosentina Diana Cavalcanti,  di antica discendenza fiorentina,  nel 1611 cedette Mottafollone e San Sosti a Lelio Caputi tramite Ludovico della Cava per la somma di 40000 ducati più una casa con giardino a Cosenza;  nel 1614 entrò in possesso ufficialmente delle terre di Luzzi e di Noce, comprate dal barone Marcello Spadafora per tramite del congiunto Marcello Firrao.  Perfezionata l’acquisizione della terra di Sant’Agata,  il 13 giugno del 1616 ottenne dal re Filippo III il titolo di marchese di Sant’Agata per sé e per i suoi eredi.  Nel 1620 lo stesso sovrano spagnolo gli concesse il titolo di principe di Sant’Agata,  e quindi nel seguente

1621 Cesare Firrao si trasferì da Luzzi, dove risiedeva saltuariamente,  a Napoli, acquistando nella prima metà dell’anno un sontuoso palazzo ubicato in via Costantinopoli – una delle strade protagoniste del grande progetto urbanistico attuato dal viceré don Pedro Álvarez de Toledo, marchese di Villafranca, tra il 1533 ed il 1547 –, che divenne così la sua residenza ufficiale.

Nello stesso 1621, e precisamente il 17 luglio, «il principe calabrese venne aggregato alla nobiltà napoletana e gli Eletti di S. Lorenzo, nella relativa pergamena, posero in evidenza come Cesare Firrao a Napoli “domum magnificam possideat”».  Trascorso il lutto per la morte della moglie Diana,  il primo gennaio del 1629 Cesare sposò Maria Caracciolo, figlia di Tommaso primo duca di Roccarainola.  Il 6 gennaio del 1634 il principe di Sant’Agata ottenne quindi dal viceré Manuel de Zúñica y Fonseca, sesto conte di Monterrey,

l’ufficio di «Mastro Portolano» della città di Napoli e dei suoi casali  dal valore di 30000 ducati e dalla rendita annua di 2400 ducati,  come ricompensa del sostegno economico e della fedeltà alla corona spagnola;  nel 1638 acquistò pure l’ufficio di «Montiero maggiore» dal finanziere Giovanni Zevallos «al prezzo di 20000 ducati, incarico che comprendeva la signoria di Guazaniti, di Gragnano e di Cancello Arnone, casali della città di Napoli».  Nello stesso 1638 il feudo di Sant’Agata fu venduto da Cesare a Tommaso Maiorana,

marchese di Sangineto, per 41000 ducati, così da estinguere momentaneamente il titolo principesco.

Cesare Firrao morì a Napoli nella notte tra l’1 e il 2 gennaio del 1647 e, non avendo avuto figli da entrambi i matrimoni, nominò suo erede universale Tommaso, figlio di Pietro Firrao, barone di Paparone e suo lontano parente,  che nel maggio dello stesso anno riacquistò dal principe di Bonifati per 40000 ducati il feudo di Sant’Agata,  provvedendo a richiedere per  sé la concessione di un nuovo titolo di principe: privilegio rilasciato a Tommaso Firrao e ai suoi discendenti da Filippo IV il 5 luglio del 1651 e reso esecutivo il 3 novembre dello stesso anno.  Il nuovo principe di Sant’Agata trasferì quindi la sua residenza a Cosenza, nel palazzo che Cesare Firrao aveva avuto in dote dalla prima moglie Diana Cavalcanti, situato nel quartiere rinascimentale della «Giostra vecchia»;  a partire da questo momento fu nel feudo di Luzzi che sarebbero state documentate sia le nascite che i decessi dei membri di casa Firrao. Il palazzo baronale di Luzzi avrebbe visto i natali, già nel 1648, di Cesare Firrao III, letterato, autore delle Rime pubblicate postume nel 1728,  e durante il decennio 1667-1677 sempre a Luzzi nacquero e vennero battezzati i figli del principe Pietro avuti da Isabella Caracciolo, tra i quali Giuseppe (12 luglio 1670),  che intraprese una prestigiosa carriera ecclesiastica diventando nel 1706 governatore di Perugia e della provincia dell’Umbria, nel 1716 arcivescovo di Nicea, vescovo di Aversa poi e quindi nel 1731 cardinale sotto il titolo di San Tommaso in Parione.

Tratto da 
"La cappella Firrao nella chiesa di San Paolo Maggiore
di Napoli: la committenza, gli artisti e le opere"

di Sabrina Iorio

DI TOMMASO FIRRAO

Principe di S. Sgata.

In lode di Cesare Firrao,

Se Mantoa, e Smirna per quei grandi Eroi,

Ch'in loro ebber la culla, altere andaro;

E l'Arno il nome suo famoso, e chiaro

Stese dal mar d'Atlante a i lidi Eoi;

Il mio Crati gentil non meno i suoi

Degni figli vantò d'ingegno raro,

Che di Pindo a le cime alte poggiaro,

Sì che lor fama ancor vola fra noi.

Ma fra quanti lodò la prisca etate

Famosi per ingegno alto e fecondo,

E per opere eccelse, ed onorate,

Cesar si miri, a null'altro secondo,

che sembra, con sue carte alme, e pregiate,

Dal Ciel disceso ad illustrare il Mondo!

Volto ver me Madonna il suo bel viso,

La vè fastoso Amore alberga, e regna,

Da lui vidi spiegar benigna insegna,

Un guardo tremolante, un dolce riso.

Qual'io restassi allor da me diviso,

Che l'alma immaginai già fatta degna

D'alta mercè, solo a ridirlo vegna

Uom da estremo piacer vinto, e conquiso.

Ma poi ch'ella mi ascose i vaghi rai,

Ratto fuggendo, come cerva suole,

Volò 'l mio cor dietro a quel chiaro lume:

Nè da quel punto a me tornò già mai,

Che ancor non la raggiugne; ed Amor vuole

Ch'io morendo pur viva, e mi consume.

Del medesimo

In morte dell'istello

Cesar, di nostra stirpe inclito, e raro

Germe, anzi gloria, ingegno alto, e sublime,

Che di Parnasso in fu l'eccelse cime

Ti ergesti col tuo canto eletto, e chiaro;

Or già, posto in non cale il Mondo avaro,

Sdegni mirare in queste basse, ed ime

Parti, ed assiso infra le sedi prime

Godi nel Ciel degli altri eletti a paro:

Pietà, senno, valor, gentil costume,

E virtù vera, a cui sempre aspirasti,

Fer che ti specchi or ne l'eterno lume.

Ti sovvenga di me, che quì lasciasti

Misero, e sol, mentr'io dagli occhi un fiume

Verso, membrando i tuoi dolci atti, e casti.

Vergine gloriosa, in cielo, e in terra

Reina eccelsa, e al pari in terra, e in cielo

Scudo a gli egri mortali, incontro al telo

Del rio nemico, e sua perpetua guerra.

Tuo braccio, anzi il tuo piè calca, ed atterra

Il perfido angue; e con pietoso zelo

A l'alme, sciolte dal corporeo velo,

Tua man l'eterno empiro apre, e disserra:

Se dunque tanto puoi, benigna, e pia

Madre, ver me rivolgi un chiaro sguardo,

Ch'ogn'altro bel creato affatto avanza.

E mentre umil t'invoco oggi, o Maria,

Fammi al ben pronto, al mal gelato, e tardo

E agguaglia al bel desio la mia speranza.

D'Antica selva entro i recessi ombrosi,

Dopo lungo penar di giorni, e d'anni

Ricovro io cerco, ed a' miei duri affanni

Luogo, ove sieno eternamente ascosi.

Erti colli, ime valli, e prati ombrosi,

Lieti di fior ben mille, i verdi panni

Se trà voi non ripiglio, un sonno appanni

Questi occhi almen, sì molli, e rugiadosi.

Nè a voi, sere, augei, pur tanto, o quanto

Di me più caglia; nè selvaggi, ed ermi

Boschi io non vengo a disturbarvi il canto.

Che dal lungo penare i sensi infermi

Sopiti ho sì, ch'alta cagion di pianto

Non poria per gran duol far più dolermi.

... Se, poi, prendiamo, ad esempio, un rimatore vissuto nella seconda metà del secolo, Cesare Firrao, nato a Luzzi nel 1648, vediamo che il marinismo (1) ha lasciato scarse tracce quantunque il Firrao sia vissuto a Napoli, dove conobbe diversi letterati marinisti. Ritornato in Calabria, il Firrao si ritirò nel monastero di Sambucina dove morì nel 1714.

Le sue rime furono pubblicate postume a Lucca nel 1728 dal nipote Tommaso e in esse notiamo, pur nella mancanza di vigore poetico, un sospiro malinconico che rende vivo qualche verso. Lo stile conserva i modi della tradizione cinquecentesca (<<D'antica selva entro i recessi ombrosi>>, <<Erti colli, ime valli, e prati ombrosi>>).

Tratto da La letteratura calabrese, Volume II di Antonio Piromalli

(1) - marinismo – Stile poetico e letterario di cui diede esempio Giambattista Marino(1569-1625), seguito da moltissimi scrittori italiani del Seicento: caratterizzato da una ricchezza quasi inesauribile di concetti preziosi e virtuosismi formali, da un’ispirazione idillico-sensuale combinata con ambizioni di profondità e persino di moralità e di religiosità, resta un’esperienza centrale nella storia del gusto barocco, rispecchiando anche la crisi spirituale che travagliava il secolo.

Cesare Firrao cantore della Sambucina e del suo paesaggio

di Aldo Coppa

Il Veltro di Sambucina”  Anno VI n.2 – Febbraio 1999

 

Cesare Firrao visse fra il secolo XVII  e il XVIII (1648 – 1714). Nacque a Luzzi, feudo della sua nobile famiglia e morì nel monastero della Sambucina. Cesare Firrao non è da confondere, come spesso si fa, con i due cardinali di nome Giuseppe, l’uno nato a Luzzi il 1669 e l’altro nato a Napoli il 1736.

I Firrao erano un’antichissima e nobilissima famiglia luzzese: quella dei Filiis Rahonis che nel 1320 mutò il cognome in Firrao.

Cesare, dunque, apparteneva a una di quelle famiglie in cui la presenza della cultura è viva e costante; in cui, cioè, “sono di casa” e poeti e filosofi e matematici e artisti e nel loro vivere quotidiano non si fa e non si dice nulla che non abbia il timbro della cultura e dell’amore per la scienza, senza di che il vivere sembra inutile e senza senso.

Cesare Firrao fu essenzialmente uno storico di Luzzi. Le sue opere storiche, come altre, sono tuttora inedite e sono in possesso della famiglia Rodinò di Napoli. Nella compilazione delle sue opere storiche egli ebbe – come attesta il Marchese nello studio “Tebe Lucana” – la collaborazione della mia gentilissima ava Mariannina Coppa, poetessa e pittrice, morta venticinquenne nel 1694, il cui fascino diventa con gli anni sempre più romantico, avvolto com’era nel mito di una presenza che vive nell’assenza delle sue opere poetiche e nel buio delle notizie che non siano quelle del Marchese e dell’Accattatis, non so fino a qual punto credibili e certe.

Cesare Firrao, però, fu anche poeta nei momenti di “otium” inteso alla latina. Le sue Rime furono pubblicate postume a Lucca, nel 1728, dopo 14 anni dalla morte dell’autore, avvenuta a 66 anni mentre era ospite nel glorioso monastero della Sambucina, poco distante da Luzzi. Il libretto comprende 92 componimenti: (86 sonetti, 5 canzoni e una sestina). Furono pubblicate dal nipote Tommaso Firrao, principe di Santagata, il quale non sopportava la modestia e il riserbo del suo gran zio e non volle che “il di lui nome restasse sepolto nell’oscurità dell’oblio”, anche perché, per linea femminile, Cesare (la madre era la nobile Elisabetta Passalecqua) discendeva da Galeazzo di Tarsia, signore di Belmonte, celebre poeta lirico del 500.

Il nipote Tommaso aveva ragione; difatti il nostro simpatico poeta Cesare, in vita, non volle che le sue opere (“i parti del suo felicissimo ingegno”) fossero “esposti per mezzo della stampa alla cognizione del mondo”. Dobbiamo noi, oggi, ringraziare Tommaso Firrao, illustre nipote di Cesare poeta, per avere pubblicato e tramandato ai posteri le Rime del suo altrettanto illustre zio? Certo che dobbiamo ringraziarlo. Ma io direi di ringraziare anche il sindaco di Luzzi, senatore Francesco Smurra e l’amministrazione comunale per avere provveduto al “reprint” anastatico delle Rime del nostro illustre conterraneo, che sono un testo ormai raro e che faranno parte della collana della Associazione Pro Sambucina. E dobbiamo ringraziarli perché ci danno l’occasione di leggere e ammirare un tipo di poesia che se non raggiunge le altezze dei nostri sommi poeti, esprime, certo, con sincerità di accenti e con originalità, temi e atteggiamenti che furono tipici del classicismo latino e greco e la frequentazione di quelle letterature gli abbia fornito le condizioni migliori perché il suo spirito e la sua sensibilità si aprissero al richiamo dell’arte e della poesia (“tuffai le labbra in Elicona anch’io” – p. 107).

Ora le rime del Firrao possono essere lette in tre modi diversi.

Il primo consiste nel leggere il testo, prescindendo dall’humus storico-biografico-culturale in cui l’autore ha maturato la sua opera (s’intende che questa estrapolazione è arbitraria!): leggere il testo senza nemmeno sapere chi è l’autore e interrogare soltanto il testo e sentore se questo ti fa vibrare le corde della partecipazione e se il sentimento del poeta collima col tuo e se, insomma, quella poesia ti scuote e ti commuove e ti avvolge in un alone di viva e sofferta umanità.

E’ una lettura extrastorica ed extratemporale, e vero. Ma con questo metodo, immune e privo di assilli di critica e di poetica, in cui si stabilisce una sorte di “tu per tu” col poeta, si possono cogliere nelle Rime del Firrao accenti di schietta e sincera poesia, come il sonetto LX di p.85 che altro non è se non un idillio ispirato al paesaggio che circonda la Sambucina.

 

D’antica selva entro i recessi ombrosi

Dopo lungo penar di giorni, e d’anni

Ricovro io cerco, ed a’ miei duri affanni

Luogo, ove sieno eternamente ascosi.

 

Erti colli, ime valli e prati ombrosi,

Lieti di fior ben mille, i verdi panni

Se tra voi non ripiglio, un sonno appanni

Questi occhi almen, si molli, e rugiadosi

 

Né a voi, fere, ed augei, pur tanto, o quanto

Di me più caglia; né selvaggi, ed ermi

Boschi io non vengo a disturbarvi il canto.

 

Che dal lungo penare i sensi infermi

Sopiti ho sì, ch’alta cagion di pianto

Non poria per gran duol far più dolermi.

 

Si noti che l’elemento idillico è quello che predomina nelle Rime del Nostro e risente dell’influenza di Teocrito di Virgilio, di Sannazzaro e Tasso.

Nella stessa ottica del giudizio critico suddetto.

E’ bella la canzone V – p.96 che esalta le bellezza e i pregi della donna amata. Qui, però, e quasi sempre quando si canta la donna, il leitmotiv di stampo petrarchesco è il “sole”, che non è nulla di fronte all’altro sole, che è la donna (siano ben lontani da Dante che chiamò “sole” san Francesco d’Assisi!). L’immagine del sole (detto anche “pianeta” – p. 84 e  “maggior pianeta” – p.76), inteso come fulgore che si irradia dalla donna amata e che ricorre sempre nella lirica amorosa, non solo italiana, è presente costantemente nelle Rime del Firrao.

Vi è, poi, un secondo modo di “leggere” il Firrao (e i poeti, in genere) ed è quello di accertare cosa dice la sua poesia nella storia; nella storia intesa come evo coevo all’autore e come temperie culturale dell’epoca in cui egli vive, e determinare, quindi, l’osmosi che si è stabilita (se si è stabilita) fra la creazione del poeta e fisionomia della cultura dell’epoca e definire le suggestioni culturale dell’epoca abbiamo, non dico determinato, ma contribuito ad affinare e rendere perfetta a poesia del Nostro. Ora, a proposito dell’attività poetica del Firrao quella osmosi culturale certamente c’è stata, non tanto per i temi della sua poesia, che sono quasi sempre quelli petrarcheschi, quanto perché ha contribuito ad affinare e dare al Nostro una certa padronanza nell’uso delle tecniche espressive e stilistiche.

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CAPPELLA FIRRAO

CHIESA DI SAN PAOLO MAGGIORE

 

L’ambiente fu commissionato della famiglia Firrao, principi di Sant’Agata di Calabria. Ovunque è una profusione di intarsi marmorei che inquadrano la scultura posta sull’altare maggiore, la Madonna della Grazie eseguita da Giulio Mencaglia nel 1640. Ai lati vi sono i sepolcri di Cesare Firrao, con la scultura del defunto eseguita da Giuliano Finelli nel 1640, e di Antonio Firrao, ritratto da Mencaglia. La decorazione della cupola fu commissionata ad Aniello Falcone che nel 1641 dipinse le Storie bibliche e le Virtù.

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ANIELLO FALCONE

Gli affreschi

Abile e prolifico come disegnatore, il Falcone è stato inoltre l’artefice a Napoli di numerosi cicli decorativi ad affresco.
Nel 1641 - 42 lavora nella cappella Sant’Agata in San Paolo Maggiore con risultati stilisticamente vicini alla Battaglia del Louvre.
Esegue una serie di Storie del Vecchio Testamento per conto di Cesare Firrao e lavora, come sottolinea il De Dominici, con una maniera “dolce, ma robusta e ben fondata nel disegno”, operando una feconda sintesi tra naturalismo e classicismo.
I soggetti raffigurati sono Boas e Ruth, Abigail e Davide (fig. 40), Ritorno dalla terra promessa (fig. 41) e Debora e Barac (fig. 42), rappresentanti rispettivamente le quattro virtù Benignità (fig. 43), Liberalità, Abbondanza e Grazia divina (fig. 44).

Tratto da: http://www.guidecampania.com/aniellofalcone/cap2.htm

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fig. 40 - Davide e Abigail

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fig. 41 - Ritorno dalla terra promessa

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fig. 42 - Debora e Barac   

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figg. 43 e 44- Benignità -e- Carità

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IL LUZZESE CARDINALE GIUSEPPE FIRRAO SENIOR.

IL LUZZESE CARDINALE GIUSEPPE FIRRAO SEN
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