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Gianfranco D’Angelo

Nato a Luzzi (CS) il 20/07/1956 – Residente a Rende (Cosenza), Istituto di appartenenza: Casa di Cura Privata “La Madonnina” (Cosenza).

Laurea in Medicina e Chirurgia. Specializzazione in Medicina Interna.

Già responsabile del Reparto Medicina Interna Casa di Cura “La Madonnina” (Cosenza).

Ideatore e responsabile della Collana scientifica “Calabria Medica” e fondatore della Rivista di Medicina Clinica, Cultura medica e Comunicazione sociale – “Tempi Nuovi Calabria Medica”:

Autore e co-autore di numerose monografie e pubblicazioni su stampa medica.

Presidente Associazione socio-sanitaria e culturale “Il viaggio ONLUS”.

Responsabile Centro Studi e Congressi Casa di Cura “La Madonnina”.

Già incaricato nel 2006, quale docente, per conto dell’Università degli Studi della Calabria, dell’insegnamento di “Multiculturalismo e città aperta”, nell’ambito del Modulo “Processi Educativi”.

E’ stato fondatore e Presidente di “Società Civile” – Movimento di opinione e di impegno sociale; Sindaco del Comune di Luzzi dal 14 giugno 2004 al 10 marzo 2006.

Prefazione

 

di Nicola MEROLA

 

     Il libro poetico di Gianfranco D’Angelo dichiara fin dal titolo, con la perentorietà un po’ autistica e la grazia che non lo abbandoneranno dalla prima all’ultima pagina, di che materia e addirittura di che parole è fatto: Cento volte cuore (dove cento non sono le poesie raccolte, ma il numero indefinito di una candida iperbole e di una ormai rara abundantia cordis: appunto).

A differenza infatti di quanto avviene pressoché in tutti i libri di poesia che si danno alle stampe, l’autore non scrive perché gli venga riconosciuto il titolo di poeta, e non rivolge quindi i suoi versi a intermediari  più o meno reali perché gli facciano da sponda nella sua carambola verso la critica. Indirizza invece francamente sui suoi cari e non smette di alimentare mai un flusso di parole affettuose che hanno l’eloquenza dei baci e delle carezze, più di qualsiasi effusione riuscendo a mantenere ininterrottamente accesa la fiammella della tenerezza (<<Movenze e gesti / che ben conosci. Tenerezza che non so dire>>; <<e nessuna vergogna / sia alla tenerezza>>) e intorno a essa disegnando e difendendo il sogno di una casa, l’assetto inevitabilmente precario (<<Tutti soli / dietro i sorrisi e l’indifferenza. / Tutti soli>>) e la dimensione soggettiva, mentale o proprio onirica alla quale appartiene ogni conquista di questo tipo. Per chi ne abbia una qualche nozione, e abbia provato l’ansia che D’Angelo sente in sé e, per quanto ne sia persuaso, può solo sperare di presagire in chi ama (<<sei / in corsa col mio cuore>>), non è millanteria la dedica <<Alla bellezza all’eleganza all’amore>>.

     Questa poesia sfrutta e celebra insieme il dono prezioso della confidenza, che arriva a essere linguistica (<<Verso i sentimenti nuovi / oppure ti allontani?>>, <<Come se fuori / la neve / o la notte>>), in quanto prima ha saggiato una confortante corrispondenza, e sfiorato il bisticcio, tra la familiarità di ciò che si sa senza saperlo e le costruzioni troppo spesso velleitarie dell’intelligenza: <<Pensieri al posto del cuore / e nel cuore il pensiero più caro>>. E’ tuttavia la serena percezione dell’enormità della posta in gioco e della natura dell’inchiostro con cui è scritta ognuna di queste poesie (<<Cento ferite ha l’animo mio. / Nessuna come te>>), ad assicurare il poeta circa il buon esito dei suoi sforzi, Non c’è ragione che tenga, quando persino il flusso continuo della tenerezza e il raccoglimento più ostinato sono la resultante di episodi contradditori:

<<E all’improvviso arrivi / pensiero caro, / pensiero amaro. / Sgomento grande, / sottile dolore / che non dai tregua>>.

     L’unico rimedio è alzare il livello della vigilanza si se stessi, inventarsi una regola, imporsi un metodo (<<Un ritmo dare / al tuo cuore. / Un senso dare / al futuro>>), nella consapevolezza che non c’è altro da fare o forse nella speranza irrazionale di una automatica reciprocità: <<Se ancora / i sentimenti contano qualcosa / il mio cuore è pieno di te. / Così tu>>. Il bene più prezioso viene messo a repentaglio dagli stessi tentativi volti a consolidarlo, certo. Ma è vero ugualmente che non c’è un mezzo meno invasivo e rischioso per goderne.

     La poesia è allora anche per D’Angelo un gioco di sponda. E’ però la pubblicazione a diventare strumentale rispetto allo scopo prioritario di rendere ancora più avvolgente il regime privato degli affetti e più sonoro e inoppugnabile l’unisono che un cuore solo /<<Cuore perduto / Cuore senza cuore>>) intona per tutti i suoi, a costo di rinunciare a se stesso: <<Chi / in un bicchiere di rosso. / Chi / tra le braccia di una donna. / Tu dove?>>. Ecco perché D’Angelo può degradare al rango di lenocinio e si permette di evitare il poeticamente corretto, dalla regolarità dei versi alla rima, alle complicazioni intellettuali, ai titoli stessi (che qui mancano quasi sempre). Ciò che non sa o non vuole evitare, è  che dalla templicità  tanto tenacemente perseguita sbocci una felicità che non appartiene a lui e esce dal cerchio magico dei suoi affetti: <<Mai altro dolore / mai così dolore>>.

Le regole del giuoco

 

Percorriamo

strade parallele.

E diciamo

di volerci incontrare.

Non più padroni

del bene né del male

cambiamo opinioni

o le regole del giuoco.

Dal mare viene

 

I ricordi

Hanno posto nel mio cuore.

Dal mare viene

L’onda dei rimorsi.

Dal mare viene

Dal mare

Il vento e la bufera.

Come la rosa

 

Fermo è il mare.

L’amore è ritornato.

Come la rosa

Rossa sul tuo petto.

Che non ho mai baciato.

Notti più chiare

 

Rallenti il cammino

vuoi che ti raggiunga.

Ma fermo resto

non sapendo che fare.

La notte che viene

sarà lunga di timori.

Rallenti

ma non ti raggiungo.

E’ come fossi fermo.

Eppure vorrei

notti più chiare

calma al mio cuore

e te vicino.

Quando

 

Quando

tutti i sogni

accarezzati nel tempo

vedrai svanire

e attorno avrai il vuoto

mordi la vita.

E non temere

la furia del vento

e la tempesta.

Vinci le angosce

anche se sarai solo.

Qualunque sia la ferita

mordi la vita

Prefazione

 

di Nicola MEROLA

 

 

  La poesia di Gianfranco D’Angelo è una poesia facile, qualsiasi cosa voglia dire l’aggettivo riferito alla poesia … Semplice e diretta la poesia di D’Angelo corteggia il linguaggio quotidiano (“E ti corteggio, vita”) e non disdegna il suo formalismo degradato “Non entro nelle tue scelte”,  “Non ho riserve, / né condizionamenti”, “in questo scorcio di settembre”,  “Non vedo alternative”, “Non avrei voluto lacerazioni”,  pur di ambientare in un contesto reale, nel suo irrinunciabile qui e ora, slanci lirici come necessari risvolti – non compensazioni ma riflessi e respiri (”Il giardino del tempo / spesso ci ha dimenticato / e per terre arse / hai condotto il mio cuore”) – della vita forsennata che, confinati in un angolo, tutti conduciamo e più di noi certamente chi a essa ha il dovere di non sottrarsi e non può che augurarsi: “Arriverà il tempo / che mi lascerà tempo”.

     Se non mi sbaglio, quello vagheggiato è il tempo che intanto annunciano lievi increspature, movimenti appena visibili sulla superficie immobile di un linguaggio cristallino o minime deroghe a una divisa di sobrietà e rigore. Tali possono essere considerati allo stesso titolo i rari scatti figurali (“Sono stato fiume. / Roccia sgretolata”) e le ancora  meno frequenti concessioni alla regolarità care alla poesia per l’orecchio (“Ti penso, senza ricordare. / Volevo andare al mare”). E’ un conforto sapere, non me ne voglia l’amico, che questo tempo non arriverà mai, perché è appunto quello dell’augurio e della domanda, per nostra fortuna e per la felice coincidenza, presso il medico e presso il poeta, tra la verità e il delicato scandaglio che la incalza e la guida, oltre e attraverso la dissonanza delle voci.

     C’è un componimento, Dedicato, per il quale rischierei volentieri il bisticcio, se non altro quello linguistico, e che mi piacerebbe fosse dedicato a me. E’ invece dedicato dal poeta a sé stesso. Ma si rivolge “ A che / ad ogni costo cerca / di chiudere il cerchio”.

     E allora, altro che personalmente, mi sento coinvolto sul piano professionale, in nome della missione che credo di dover compiere come critico letterario e professore, con la parola forse solo diversamente terapeutica – anch’essa un augurio degno di essere espresso in quanto coincide con il pronostico – che ho il privilegio di indirizzare ai giovani e agli scrittori, più forse ai poeti che ai romanzieri.

     Il compito “di chiudere il cerchio”, di trovare un senso e un equilibrio, cioè l’ipotesi di conciliazione non opportunistica con il mondo in cui credo consistano il privilegio e la missione, si rivela però pienamente il tratto comune tra l’interprete e il medico, il professore e il poeta, da che ciascuno depone la pretesa di non essere confuso con i sacerdoti infedeli della sua stessa religione. Siamo tutti testimoni allo stesso titolo della vera fede – cioè della Poesia e della Medicina, della Critica e dell’Insegnamento – che non appartiene mai a chi la professa senza comunque rappresentarla compiutamente e può solo sperare che qualcun altro la realizzi. Bisogna insomma, come scrive D’Angelo, “Risalire la corrente / fino a porti nascosti / dove / non essere più rivali”.

     Il procedimento che è familiare a me – e sì che deve coesistere con la saccente difficoltà della prosa – assomiglia a sua volta a una speranza, o proprio a una domanda, di quelle retoriche che, a differenza di tutte le altre, corrono il rischio di essere smentite e, non cessando di indagare circolarmente, scoprono dentro di sé, dietro un’eco, ogni risposta. Che io al cospetto di un nesso simile mi azzardi a convocare la poesia secondo Valéry e il suo “suono in cerca di un senso”, non sarà più un eccesso di zelo, se il lettore, messo sull’avviso, avrà preceduto il mio pensiero e pronunziato al posto mio una parola che a me e alle mie perifrasi  sembrava finora sconveniente. Dopo che mi sono consentito la banalità di un riferimento all’auscultazione, neppure io sarò così pudibondo da non illustrare la natura dialogica del prodigio qui indagato paragonandola a un’ecografia.

     Se a questo punto il poeta, sia pure per un momento, non sarà più d’accordo con le sue parole e non deprecherà che non gli sia stata restituita tal quale la sua felicità, ma, nel gioco delle domande che non sono più le sue e nelle carte mischiate daccapo, tornerà a riconoscere sé stesso, il cerchio sarà chiuso, la promessa mantenuta e il malato, nutrice e fratello, come nelle simmetrie oniriche più imbarazzanti, finchè dura guarito.

Quanto azzurro

 

Il vento soffia,

attraversa i miei giorni.

Quanto azzurro hai

rubato alla mia vita.

Sono stato fiume.

Roccia sgretolata

di un fiume in piena.

in qualche punto

finirà il dolore?

Ferite

 

Nulla sembra cambiato,

ma niente è come prima.

Deserto ovunque.

Ferita che duri nel tempo,

dolore che a me ti opponi.

Le orme dell’inganno

Ancora lasciano traccia.

La tregua

 

Non è nel pozzo

che devo cercare la luna.

Sarebbe inutile.

E’ alta questa sera,

la luna.

Vorrei una tregua

in questo labirinto

di anime e dolori.

Il silenzio

 

Il silenzio accompagna

le mie solitudini.

In qualche angolo

mi fermerò.

Forse su una pietra di mare.

Abisso senza fine

nel mio cuore.

Vita

 

Non diventare eco.

Cancella il ricordo.

Brezza di mare,

scoglio della vita.

Piaga feroce,

ansia senza fine.

Alle spalle colpisci.

Perché?

Perché, me?

I miei occhi

 

I miei occhi

più non ti cercano.

E tu non vedi.

E non so

se già sei

fuori

dai miei pensieri.

Ancora torni.

Non mi difendo.

 

 

 

Dopo la neve di gennaio

avevo sperato

il seguito migliore.

Non avrei voluto lacerazioni.

Ho cercato di crederti.

Poi i mesi sono passati.

La neve è durata poco.

Ma la bufera continua

ed è tormenta.

Volevo andare al mare

 

Sto ancora aspettando

che si apra

la grande finestra verde

che hai chiuso tanto tempo fa.

Da allora è diversa per me la vita.

Ho atteso molto.

Davvero ti ho cercata. A lungo.

Ora dimentico spesso.

Per poter vivere

ho chiesto che sparisse il ricordo.

Ti penso, senza ricordare.

Volevo andare al mare.

 

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