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Luigi Lupinacci
L'ABBAZIA DI SANTA MARIA
DELLA SAMBUCINA
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     Sulle pendici dell’acrocoro silano, a circa sette chilometri da Luzzi, sorgeva l’abbazia cistercense di S. Maria della Sambucina;  il suo nome deriva da <<sambuco>>, una caprifogliacea dalle bianche inflorescenze, che vive spontanea in quei luoghi. Una tradizione, accolta e conservata ancor oggi dai Cistercensi, vuole che, in antichissimi tempi, ad un pastorello apparisse, in un cespo di sambuco in fiore, la Vergine reggente tra le braccia il Divino Fanciullo; pertanto alla Madonna del Sambuco venne consacrata la chiesa abbaziale. Ma quello della Sambucina sarebbe rimasto nella toponomastica un oscuro nome dai più ignorato, se ad esso non si fosse collegato il nome dei Cistercensi  i quali dalla Sambucina irradiarono luce di fede e di sapere.

     L’ordine cistercense trasse la sua origine dai contrasti che dividevano, nella metà dell’XI secolo, i cluniacensi, di cui, alcuni intendevano applicare con minor rigore la regola benedettina, mentre altri ne volevano il ritorno alla originaria austerità. Roberto, abate benedettino di Molesm, lasciava nel 1098 la sua abbazia con altri venti monaci, e creava il monastero di Citeaux, ristabilendo nella nuova comunità l’antica osservanza della regola benedettina. Dal nome del luogo dove sorse il primo cenobio, derivò quello dell’Ordine.

     San Benedetto, abate cistercense di Clairvaux, rinsaldava a sua volta la regola cistercense in un nuovo richiamo alle origini benedettine, e ciò non solo per quanto si riferisce alla lettera, ma ancor più per quanto ne riguarda lo spirito, riconfermava la antica norma benedettina dell’ <<ora et labora>>, ed orreneva, nel 1119, da Calistro II il riconoscimento ufficiale dell’Ordine. …

   … Dalla Sambucina i Cistercensi si irradiarono in tutto il regno normanno, dalla Puglia alla Sicilia, costruendo numerose abbazie od istallandosi in quelle già esistenti; ricorderò, per brevità, solo quelle calabresi menzionate dal Marchese (op. cit.): Corazzo – S. Maria di Terrate (Rocca di Neto) – S. Maria Ligno Crucis (Corigliano) – S.Maria della Matina (S. Marco Argentano) – S. Maria di Acqua Formosa – S. Angelo in Frigido (Mesoraca) …

     … Profonda fu la penetrazione che i Cistercensi riuscirono ad operare presso i fedeli, e cioè sia attraverso l’esempio della loro pietà e dall’austerità della loro vita; di questa loro forza di attrazione è chiaro esempio Gioacchino da Fiore, che, smesso l’abito benedettino, rivestì alla Sambucina il bianco saio dei Cistercensi.

     I Cistercensi della Sambucina operano largamente sorretti dal favore sia della Curia di Roma, sia della Corte di Palermo. Nel regno normanno prevaleva il rito greco;  La Curia di Roma, che auspicava la latinizzazione di quelle importanti masse di fedeli, vedeva nei Cistercensi una milizia agguerrita e piena d’entusiasmo, capace di realizzare il suo non facile programma; la Corte di Palermo, d’altra parte, diffidava del clero greco, ritenendolo un esponente della Corte di Costantinopoli insediato ed operante nel regno normanno.

     L’abbazia della Sambucina raggiunse presto grande potenza economica e per i numerosi privilegi di cui venne a beneficiare, e per immensi possedimenti terrieri acquisiti attraverso donazioni dei Sovrani normanni, di privati e dall’assorbimento di non poche abbazie di diverso ordine in istato di decadenza. Grande ne fu anche l’autorità ed il prestigio, sia sul piano politico che religioso, in conseguenza delle numerose abbazie, sparse in tutto il regno normanno, che da essa dipendevano e di cui essa era la Casa Madre.

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     Alla Sambucina fiorì l'arte calligrafica, particolarmente ad opera del giovano monaco Luca Campano,  nonché uno <<studium artium>>, da cui uscirono insigni protomaestri. L'influenza dei Cistercensi si fece anche sentire nel campo dell'agricoltura, dei commerci, dell'artigianato. Vissero in quel cenobio personaggi di statura storica; ricorderò tra tutti Luca Campano, grande protomaestro, teologo, predicatore della quarta crociata, nonché Gioacchino da Fiore, e, secondo il Marchese (op. cit.) Pietro Lombardo e Francesco Accursio, che vi avrebbero trascorso gli ultimi anni della loro vita e che in quella chiesa badiale avrebbero trovato sepoltura.

     Ma la Sambucina va particolarmente ricordata, perché dalle sue mura prese l'avvia quel largo movimento di latinizzazione, che sul piano religioso fece mutar volto al Regno normanno.

     Un terremoto verificatosi nel 1184 danneggiò grandemente le fabbriche abbaziali,tanto da imporne la ricostruzione; in breve tempo i monaci riedificarono la chiesa ed il convento (1197). Architetto ne fu Luca Campano,e che mirabile dovesse apparire nella sua austera severità la realizzazione della chiesa, è testimone quanto di essa ancora permane.

     Dopo la ricostruzione del 1197 la vita riprese fervida (creazione di S. Angelo in Frigido - 1220); <<tra la fine del XII secolo ed il principio del XIII la Sambucina raggiunse il suo massimo splendore ad opera di un abate che occupa un posto eminente nella storia della Chiesa calabrese, Luca Campano, già monaco di Casamari e più tardi arcivescovo di Cosenza. Nel primo ventennio del XIII secolo i documenti testimoniano un fervore di attività veramente intenso, che lascia arguire il prestigio e la potenza a cui erano giunti i monaci dell'abbazia. Né certo doveva farvi difetto la pietà, se proprio in quegli anni l'abate Bernardo, poi arcivescovo di Cosenza, moriva in concetto di Santità>> (Pratesi - op. cit.) Sostanzialmente, il periodo luminoso della Sambucina è da ascrivere nell'arco di tempo che va dalla fondazione dell'abbazia al 1220. Poi incomincia il rapido inesorabile declino; ne vanno ricercate le cause, come per molti altri cenobi, nell'eccessiva ricchezza alla quale essa era pervenuta, che portò alla decadenza del costume, al conseguente allontanamento della regola nonché all'affievolirsi del fervore spirituale (nel 1218 l'abate Giovanni fu coinvolto in un increscioso episodio; severamente giudicato dal Capitolo Generalizio, quest'ultimo ne decretò l'immediata deposizione). Ma più probabilmente questo declino fu determinato dalla mancanza di uomini capaci di reggere con mano sicura le sorti dell'abbazia. ...

...  Quale sia stata la vita che ebbe a svolgersi in quel ridimensionato cenobio, è difficile a dirsi; scarsi sono i documenti e di dubbia attendibilità. Probabilmente un esiguo numero di monaci vi fece ritorno e vi prese stanza in forma stabile, intenti alle pratiche del  culto ed alla cura del possesso terriero. Pertanto meglio attraverso quanto ci dicono le cose, che dalle notizie attinte dalle carte, noi possiamo arguire come secolari periodi di ombra siano stati talvolta interrotti da brevissimi sprazzi di luce, e come, pur essendo l'antico prestigio inesorabilmente tramontato, quelle vecchie mura fossero ancora capaci di suggerire profondi sentimenti di pietà e di religiosità, e d'ispirare alacre fervore di opere.

     Infatti, nei primi anni del quattrocento i monaci costruirono un acquedotto per convogliare acqua potabile al convento ed al sitibondo abitato di Luzzi. Essi captarono l'acqua ad una quota di circa 1200 metri e la portarono fino a Luzzi, ad una quota di circa 270 metri. Un capolavoro d'ingegneria idraulica , sol che si pensi che il tutto fu realizzato utilizzando tubi di argilla rivestiti da un sottile manto di calcina e pietrisco.

     Nell'attuale sagrestia troviamo uno stupendo cassettone per paramenti sacri, un pezzo goloso d'antiquariato; un pezzo quattrocentesco che sembra uscito dalle mani di uno dei migliori maestri toscani. Ma esso non è toscano, è stato costruito in loco; è in castagno; e chi ha esperienza della qualità del legno di castagno che si produce alla Sambucina, nel legno di quel cassettone ritrova le medesime caratteristiche di pasta e di fibra.

     Infine sulla parete destra dell'abside si ammira un bellissimo affresco raffigurante la Madonna del Sambuco (la sola iconografia nota della Vergine con questo appellativo) ai piedi dell'affresco un nome: Orlandus Stames, il pittore; ed una data 1401.

     Un altro sprazzo di luce dovette risplendervi intorno alla seconda metà del seicento; ce ne è testimone quanto ritroviamo alla Sambucina di cose relative a quegli anni. Per adornare le nude piatte pareti della chiesa i monaci arricchirono il loro tempio di un pregevole altare barocco in legno scolpito e dorato al quale sovrastava una tela di vaste dimensioni raffigurante la Madonna Assunta; codesta tela è ritenuta opera di luca Giordano o di maestro di poco anteriore a Luca, ma di maggiori pregi artistici.

   I Cistercensi lasciarono definitivamente la Sambucina, quando, in conseguenza delle leggi eversive della proprietà ecclesiastica, si richiusero alle loro spalle i battenti dell'antico cenobio.

     Oggi, la chiesa è parrocchia, il convento è domicilio privato. ...

... Quanto ci è pervenuto della chiesa, non è molto, tuttavia ce ne è a sufficienza, perché a noi sia possibile ricostruirla idealmente nella sua completezza, così come l'aveva realizzata Luca Campano. Sul piano storico-artistico la chiesa della Sambucina ha somma importanza, in quanto essa si presenta a noi come un prototipo di questa scuola che provvide alla costruzione delle altre chiese cistercensi nell'Italia Meridionale, e come l'unico esemplare superstite di quei modelli cui si ispirarono successivamente gli architetti nella costruzione delle chiese che sorsero in Calabria nel XIII secolo. Ma vi è dell'altro: la chiesa della Sambucina è forse da annoverare tra i pochissimi esemplari d'arte cistercense pura esistenti in Italia, immune da rimaneggiamenti, rifacimenti e da influenze tardive, che alterarono il pensiero architettonico di S. Bernardo. Quanto di quella vecchia chiesa esiste e si conserva, è assolutamente autentico ed originario; l'uomo ha messo in luce quello che esisteva, non vi ha aggiunto nulla di posticcio. ...

...  Non saprei concludere questa mia relazione senza ricordare Gioacchino da Fiore, che tra le vetuste mura della Sambucina visse i più fervidi anni della sua vita contemplativa e spirituale, e che in quel cenobio maturò il suo pensiero, pensiero che l'Alighieri largamente accettò, traducendolo nella Commedia <<in quei divin concenti ch'egli può solo>>

     Nel XII canto del Paradiso Dante, incontrando Gioacchino dice:

.....e lucemi da lato

Lo calavrese abate Gioacchino

Di spirito profetico dotato.

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     Se da questi versi emerge chiaro l'altissimo riconoscimento di Dante per il veggente di Celico, è pur vero che non è questo il solo passo del Divino Poema in cui grandeggi la figura di Gioacchino. Moderni, più approfonditi studi sull'opera di Gioacchino, e la migliore conseguente conoscenza del suo pensiero, hanno portato a far luce su molti passi della Commedia ed a rivelare un intimo parallelismo tra il pensiero ed il simbolismo gioachimita, ed il pensiero ed il simbolismo dantesco. Ad integrare ed a completare questo complesso di conoscenze si è di recente aggiunto il ritrovamento di un codice riproducente  il <<Libro delle Figure>> di Gioacchino da Fiore, ritrovamento avvenuto intorno al 1939 nell'archivio del seminario vescovile di Reggio Emilia ad opera del padre Leone Tondelli, ed il contemporaneo ritrovamento di altro esemplare dello stesso testo avvenuto a Oxford da parte della signorina dott. M. Reever.

     Pertanto Giovanni Papini (Dante Vivo) può dire <<se la Commedia è, nel fondo e nella sua struttura teologica, tomista, il suo afflato poetico, espresso in misteriose forme, è gioachimita. San Tommaso gli insegnò ad edificare con ordine e saggezza il tempio tripartito del suo poema; ma nel centro di quel tempio c'è un tabernacolo, coperto d'emblemi misteriosi, che racchiudono una fiamma accesa con faville che provengono da Gioacchino>>.

     Ernesto Buonaiuti (Dante come profeta) nel prospettare il problema del <<gioacchimismo dantesco>> intravede nel simbolo di Beatrice l'idealizzazione della Chiesa Spirituale di Gioacchino, e non esita ad affermare che l'ispirazione dantesca è tutta nutrita del messaggio gioacchimita.

     Antonio Crocco (Gioacchino da Fiore) ricorda come l'Ermini (Medioevo latino) abbia per primo segnalato l'analogia tra l'ordinamento della terza Cantica ed il simbolismo del <<Salterio decacorde>>, talché  lo Ermini conclude: <<il Salterio gioacchimita ha offerto a Dante la migliore costruzione poetica e simbolica del Paradiso. .....

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LUPINACCI di Cosenza. Antica casata filo-aragonese di cui si hanno notizie fino al XIII secolo. Furono proprietari di molti possedimenti terrieri e immobiliari. A Cosenza si trova un loro palazzo. Ebbero il feudo di Casole Bruzio dove edificarono una villa. Furono anche baroni si Scalzati. Nel 1780 l'Abbazia Cistercense di Santa Maria della Sambucina a Luzzi, venne soppressa da re Ferdinando ed incamerata dal demanio, nel 1803 alcuni terreni e parte del complesso furono acquistati dal barone Stanislao Lupinacci. Ebbero anche una privata collezione d'arte. Si imparentarono con i Ferrari, Telesio, Guzzolino, Maida e altre. Arma (stemma): D'argento alla fascia d'azzurro caricata da un lupo rivoltato coronato d'oro, con l'aquila di nero linguata di rosso col volo abbassato uscente dalla fascia.

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