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Giuseppe GIORNO

nato a Luzzi nel 1940.

Orfano di guerra, studia a San Marco Argentano e a Catanzaro.

Consegue la Laurea in Lettere.

Ha insegnato al Liceo Classico Bernardino Telesio per oltre trent’anni.

E’ sposato con Concetta Dima e ha tre figli e due nipoti.

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Sembrerebbe l’incipit di una bella fiaba: “Cera una volta…” Ma non trepide principesse e nemmeno cavalieri temerari vivranno alla fine felici e contenti.

La parabola esistenziale dei protagonisti, apparentemente l’una discorde dall’altra, si ricongiunge in un consapevole e risolutivo Golgota.

Il giovane seminarista diventa un impegnato professore di sinistra.

Il coraggioso e tormentato Don Anselmo prende su di sé l’ultima croce e si arrende al dolore del figlio punito dal Padre.

Entrambi tragicamente sconfitti.

E non c’è luce alla fine della strada.

Anche l’amore di gioventù di Don Anselmo, abbandonato per vestire l’abito talare, ha un nome profetico: Speranza.

Non c’è lieto fine per alcuno.

Non c’è per la sorella di Don Anselmo, suora e donna violata dai marocchini. Come tante. Come troppe.

Non c’è per la dolce Annina. E tantomeno per l’arrogante potestà.

In questo piccolo mondo, compreso tra l’agonia del fascismo, il trapasso della guerra e il coraggio disperato delle lotte contadine in Calabria, non ci sono vincitori.

Solo Vinti.

Presentazione del libro

C’era una volta

di Giuseppe Giorno

Sala Convegni Pro Loco La terra dei LUCIJ   

 

 

Buonasera a tutti e benvenuti . Il titolo “c’era una volta”, di primo acchito, farebbe pensare ad una bella fiaba, ad una di quelle fantasiose storie che vedono come protagonisti valorosi cavalieri e bellissime principesse , storie nelle quali non manca mai il “vissero felici e contenti”, tutti i personaggi coronano i propri sogni, il bene vince sul male, tutti godranno di una vita serena e felice. Qui non abbiamo niente di tutto questo . Il titolo del romanzo in questione invita, piuttosto, il lettore a fare un tuffo nel passato e ad addentrarsi in un piccolo mondo ormai scomparso, un mondo che, appunto, c’era una volta ma che adesso non esiste più.


Siamo nei primi anni 40 del secolo scorso, un periodo in cui all’agonia del Fascismo e alla fine della guerra si aggiungono i conflitti della ormai agonizzante civiltà contadina, una civiltà spesso oppressa e degradata dai signori dell’epoca, proprietari terrieri, ma non per questo scevra di quei valori e di quelle passioni che caratterizzano l’intrinseca natura umana. Anzi proprio perché oppressi, gli essere umani tirano fuori più facilmente quello che di buono Dio mette in ogni persona. Se è vero come è vero che la sofferenza ha non solo una funzione catartica ma, se vissuta correttamente, ha anche un suo aspetto incomprensibilmente dolce: “ Chi vuole seguirmi rinneghi se stesso, prenda su di sé la sua Croce e mi segua, il mio giogo è dolce ed il mio carico è leggero”. Nella società contadina fervono infatti vivissimi valori quali la famiglia, il lavoro, la solidarietà, valori in gran parte andati persi, oltre ad una religiosità che, seppur frammista spesso a superstizione, è viva e presente e, soprattutto, costituisce, parte integrante del quotidiano. Eppure tante erano le ingiustizie! Se al signore di turno il colono non andava più bene non ci pensava due volte a metterlo alla porta, a cacciarlo via con tutta la famiglia, famiglie spesso numerosissime che rimanevano, così, prive di un tetto e del nutrimento necessario.


E’ in questa particolare cornice che si inserisce la storia che ci apprestiamo a narrare, storia fatta di personaggi, apparentemente solo paralleli, ma uniti da un filo conduttore comune: i valori di una civiltà ormai scomparsa che riecheggiano, però, domande esistenziali sempre vive e valide in ogni essere umano. Il sipario si apre sulla vicenda di un giovane seminarista che, pieno di sogni di gioventù, ed ancora ignaro del senso della vita, lascia il paesello per andare a studiare in seminario. Singolari i personaggi che lì incontrerà e che poi diventeranno il perno di tutto il romanzo.


Uno dei primi personaggi è Don Agostino, insegnante di matematica in seminario, uomo a cui piaceva dare soluzione scientificamente esatta ad ogni problema e la mancata soluzione dei problemi causava, in codesto uomo, un vero e proprio tormento interiore. In realtà parliamo di problemi che, per loro intrinseca natura, nulla hanno in comune con una scienza esatta. Eppure il buon Don Agostino si sforzava, con eroica ed appassionata insistenza, di trovare le soluzioni esatte al problema dell’incarnazione, del peccato originale, della sofferenza, della morte. Era ossessionato dal tempo, quasi che possedere il tempo significasse, in qualche modo, possedere l’Eterno.


Alla fine, per questo suo modo strampalato di comportarsi, per le sue continue illazioni sui più grandi interrogativi dell’umanità, viene allontanato dal seminario. Rimasto ormai solo ed emarginato da tutti gli resta una sola speranza: tentare di controllare il tempo tramite la sincronizzazione dei tanti orologi che teneva sparsi per la casa. Egli mai riuscirà a vedere i suoi orologi sincronizzati. La morte lo coglie nel sonno e la tanto agognata sincronizzazione avverrà solo dopo la sua dipartita. Proprio Don Agostino che voleva possedere il tempo muore senza la consapevolezza che per lui il tempo si sta fermando Non c’è Luce per lui, quindi, non c’è lieto fine.


Don Agostino rappresenta la continua ed affannosa ricerca dell’uomo verso l’Eterno, verso l’Infinito, Infinito che l’uomo intravede ma che non riesce mai a possedere e si convince, quindi, che si tratti di mera illusione, si convince che la felicità non esiste, che non esiste soluzione alcuna al destino di sofferenza e di morte cui l’uomo è condannato.


Il mistero dell’incarnazione difficilmente ammetterebbe le soluzioni matematiche di Don Agostino perché nulla ha di razionale, almeno così come noi intendiamo la razionalità.


Non so se sapete che il Cristianesimo è considerato una bestemmia, non solo dagli ebrei e da tutte le altre religioni ma, più genericamente, da ogni essere umano che utilizzi come metro la sola razionalità, il comune buon senso. Insomma è pura follia credere che Dio sia uomo, pensare che un Essere che ha creato l’universo e forse più universi paralleli si sia addirittura scomodato a prendere le sembianze umane è qualcosa che va contro ogni logica. Don Agostino, infatti, era tormentato da questo forse più che dagli altri interrogativi, il pensiero di un uomo Dio lo faceva impazzire. Don Agostino sosteneva(e rendeva partecipi, loro malgrado, i colleghi ed il rettore di tali argomentazioni): l’uomo s’incarnerebbe mai in un verme oppure in una formica? Mai. Eppure la distanza tra l’uomo e il verme o tra l’uomo e la formica è infinitamente inferiore di quella che intercorre tra Dio e l’uomo. Allora perché? Perché? In realtà, tale incomprensibile mistero, ha suscitato scandalo fin dal principio. L’annuncio dell’Angelo a Maria ha suscitato, anzitutto, la meraviglia di Maria stessa la quale resta inizialmente attonita ma mai incredula (qui la differenza sostanziale tra Maria, creatura scevra della macchia originale, ed ogni altro essere umano, e qui l’origine di tutti i tormenti), ella, pur non capendo fino in fondo, si fida, “si consegna prigioniera nelle mani del Suo Signore”(Don Tonino Bello). “Ecco l’ancella del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola”.


Così accade durante il processo tenuto dal Sinedrio. Alla Domanda di Caifa:” Sei tu il Cristo , il Figlio di Dio”?’ Gesù risponde: “ Io lo sono” . Caifa che si straccia le vesti è l’emblema dell’uomo che non può, non riesce ad accettare ed a capire tale mistero, dell’uomo che resta tenacemente aggrappato all’illusione di potere controllare tutto con la sua razionalità, all’uomo che non apre il cuore, che non si fida, che si crede Dio. “Eppure il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” recita il Vangelo di Giovanni. Pensate, dunque, a quale meraviglioso ed incomprensibile scandalo abbia dato origine il Cristianesimo. Scandalo e contraddizione in tutto. “ Maria Vergine Madre figlia del Suo Figlio”.Il Cristo che morendo distrugge la morte . Come si fa a distruggere la morte con la morte? E’ un continuo ossimoro che pure da
vita alla più grande Rivoluzione di tutti i tempi: nessuno prima di lui, nessuno dopo di lui. Il Verbo che prende carne da una piccola ragazza di Nazareth, quella ragazza il cui grembo contiene Colui che l’Universo intero non riuscirebbe mai a contenere. Eppure è avvenuto. Salvare l’uomo attraverso l’uomo. Solo Dio poteva avere un’idea tanto geniale.


Tra circa 10 giorni, come ogni anno, si festeggia questo mistero, questa contraddizione , il Natale dovrebbe essere questo: contemplazione del Verbo incarnato.


Il secondo magnifico personaggio che si inserisce è quello di Don anselmo. Don Anselmo aveva tutto(secondo la logica del mondo), proprio come Francesco di Assisi, era figlio di ricchi(figlio del padrone) aveva una bellissima fidanzata, sogno di giuventù. Decide di abbandonare tutto il suo mondo, le sue ricchezze, il suo amore di gioventù per indossare l’abito talare, per inseguire una chiamata che credeva di avere ricevuto. Don Anselmo, coraggioso sognatore ed idealista convinto, credeva di potere finalmente riscattare i poveri, i diseredati, gli ultimi, i deboli, pensava che i contadini meritassero una seconda possibilità, si indignava di fronte ai continui soprusi dei padroni e voleva che finalmente quella povera gente oppressa venisse riscattata dalla miseria, dalla fame. La sua scelta gli era costata non poco. Oltre a
rinunciare a tutte le ricchezze egli aveva dovuto inimicarsi il padre il quale(proprio come Pietro di Bernardone,) considerava l’abbandono del mondo una follia, una follia il dedicarsi ad un branco di straccioni , di gente messa ai margini dai potenti. Don Anselmo inizia la sua rivoluzione che, però, come precisa l’autore, non aveva la pretesa di seguire le orme di Cristo ma voleva, più semplicemente, offrire a gente come Francesco, padre di famiglia, la possibilità di riscattarsi dalla miseria. Don Anselmo voleva dare le sue terre ai poveri. All’improvviso interviene il maresciallo dei carabinieri che, per placare la rivolta, minaccia Francesco il quale si difende e viene colpito da un proiettile, Francesco muore. Si apre un processo, imputato Don Anselmo, il quale, inerme e rassegnato, non prova neanche difendersi. Don
Anselmo soccombe in silenzio. Tace davanti a tutto ciò che accade, viene privato di tutto. Scomunicato a divinis, infranti ormai tutti i sogni di rendere giustizia agli ultimi, si arrende al suo destino ed infine alla morte. Rivive piccoli sprazzi di nostalgia del passato, rivede Speranza, suo amore di gioventù, la donna che amava prima di diventare sacerdote, rimpiange quello che poteva essere e non è stato, ma ormai è tardi, anche per lui non esiste lieto fine, la felicità resta solo un’ illusione.


Sempre sullo sfondo di questo piccolo mondo compare la squisita e dolce figura femminile di Annina, giovane donna madre di una bambina il cui marito, Pasquale, è partito per la guerra. Vive anni immersa nel timore di non rivedere più il marito. Quando, inaspettatamente, Pasquale torna a casa sano e salvo e Annina potrebbe godersi la tanto agognata felicità, un tragico incidente porta via la figlia ai due giovani sposi. Pasquale, distrutto dal dolore, come l’uomo che non riesce a capacitarsi del perché di tanta sofferenza, che non riesce, che non può sopportare la morte della figlioletta, protesta contro la Divinità in un modo singolare: strappa la barba alla statua del Padre Eterno presente nella Chiesa del paese. L’autore, a questo punto, riferisce che, per placare tanto dolore, sarebbe necessario un urlo cosmico. Anche per
Annina e suo marito Pasquale, dunque, non esiste lieto fine, l’illusione della felicità era durata così poco che, probabilmente, neanche la ricordavano più.


Doveroso menzionare la ricchezza di particolari con cui l’autore descrive, non solo i personaggi, ma la vita contadina, scandita da ritmi precisi e sempre uguali. Vale la pena leggere direttamente il testo. Una scoppiettante e brillante sintassi permette di dare vita ad un vivace e singolare quadretto di cui quel piccolo mondo era espressione. Es. pag. 41,42 43. La povertà costituiva, quindi, una condizione normale tollerata, fisiologica, proprio come la morte (pag.70). Morte e vita sono di continuo temi centrali del romanzo. Alla fine, però, sembra che solo la morte trionfi, che la felicità sia sempre e solo illusione. L’autore dedica alla felicità un capitolo ed anche qui essa è presentata come illusione ingannatrice, ingannatrice perché impersonata da una bella e giovane donna cui si contrappone subito la fine , la morte.


Non lasciatevi ingannare. Sotto tanto apparente pessimismo si nasconde, prepotente e vivo più che mai, il desiderio, implacabile e irrinunciabile, della felicità senza fine, senza spazio né tempo.


E’ singolare notare come l’uomo spesso ritenga più semplice non credere, per paura di illudersi, probabilmente, preferisce pensare che la vita sia solo sofferenza. Lo stesso Leopardi resta prigioniero della ragione. La realtà non poteva andare oltre la ragione, Leopardi, in realtà, intravede vivissimi gli spiragli di Luce e nel sonetto alla “Sua donna” parla di quella Bellezza con la B Maiuscola che salverà il mondo, ma non si spinge oltre, almeno non esplicitamente, restando prigioniero di una mentalità che non ammette esistenza oltre il razionale. Quindi, il pessimismo qui presente, non è vuota rassegnazione, non è sterile e lamentoso abbandono ma coraggiosa ribellione per la sospirata ed agognata felicità. Restano, quindi,gli interrogativi irrisolti: perché la sofferenza, la vita, la morte. Il male sembra procedere inesorabile ed
inarrestabile, spesso insopportabile se non ci fosse un Altro da noi, non visibile ai nostri occhi, che lo renda leggero. Il fatto che noi non lo vediamo non vuol dire che egli non esiste. E’ come se provassimo a sentire il sapore del cibo con le dita, non è il cibo a non avere sapore, semplicemente le dita non sono lo strumento adatto a percepire il sapore del cibo. Così il nostro cervello non è lo strumento adatto per vedere questo Altro che ci sostiene e che ci rende dolce persino la sofferenza. Non è facile sopportare la malattia di un familiare, credetemi, ma tutto acquista un significato diverso se si riconosce che dietro quella malattia si nasconde un Altro. C’è un Salmo che descrive molto bene il male che incombe minaccioso, che ti stritola, che non ti lascia via d’uscita e tu inizi ad ansimare, inizi a pensare che ormai è tutto perduto, che luce non c’è, non esiste, la morte ti tiene, ti vince, non hai scampo poi…

 

Amo il Signore, perché ascolta
il grido della mia preghiera.
Verso di me ha teso l'orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.
Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi,
ero preso da tristezza e angoscia.
Allora ho invocato il nome del Signore:
“Ti prego, liberami, Signore”.
Pietoso e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge i piccoli:
ero misero ed egli mi ha salvato.
Ritorna, anima mia, al tuo riposo,
perché il Signore ti ha beneficato.
Sì, hai liberato la mia vita dalla morte,
i miei occhi dalle lacrime,
i miei piedi dalla caduta.
Io camminerò alla presenza del Signore
nella terra dei viventi. Nella terra dei viventi, non dei morti.


La vita trionfa, la morte è distrutta per sempre. Leggete “C’era una volta”. Ne vale la pena. Grazie.

 


Luzzi lì 15/12/2018                                                                                                                Marta GIORNO

Presentazione del libro

C’era una volta

di Giuseppe Giorno

Sala Convegni Pro Loco La terra dei LUCIJ   

 

Buonasera a tutti e grazie agli organizzatori di questo incontro per avermi chiamato.

Sono contento di essere qui stasera per la presentazione di questo lavoro di Giuseppe Giorno (…).

     Ci sono vari modi, secondo me, per presentare un libro, ma tutti sono collegati da un sottile fil rouge: non essere noiosi! Pertanto cercherò di essere sintetico e per quanto possibile chiaro, per lasciare così in voi anche la curiosità, la voglia di leggere il libro.

     “C’era una volta” è un piacevole romanzo, dove il protagonista racconta la storia della sua vita, ambientata nel territorio della media valle del Crati, in un periodo storico che segue la caduta del fascismo e la fine della seconda guerra mondiale.

      Un romanzo dove le vicissitudini si intrecciano con le avventure dell’anima, fra dubbi e incertezze, delusioni e speranze. Un romanzo dove i 23 capitoli, in ragione della loro brevità, si leggono tutti di un fiato e tengono desta l’attenzione del lettore fino alla fine.

     L’agile volumetto, è pervaso da un costante e profondo pessimismo, a partire dall'infanzia resa triste dalla morte del padre, caduto in guerra sul fronte Russo, e dalla sua esperienza in seminario alla quale dedica il maggior numero di pagine (20).

      Particolarmente toccante l'ìncipit del libro in cui l’autore sente questo forte senso del vivere, dell’essere sulla terra e nel venire al mondo: “Cado lentamente in un pozzo senza fine, neve in un crepuscolo senza vento. Non so quando ha inizio la mia caduta. Provo orrore affacciandomi all'orlo del vecchio pozzo: l’acqua nera immobile mi attira e sento la vertigine di chi sporge nel vuoto”.

     Scrivere un romanzo, e in bella forma, non è cosa facile; bisogna far vibrare le corde del lettore, e le corde del lettore vibrano solo se chi scrive riesce a far vibrare le sue, durante lo scrivere, ovvero solo se lo scrittore si è reso disponibile ad ascoltarsi e vivere quei momenti che si porta dentro.

A pagina 80, il prof. Giorno scrive: “C’era lei, Speranza, la figlia del podestà… Anselmo sentì il profumo del suo corpo… Non c’era particolare della sua persona che fosse comune: i capelli neri, legati a treccia e sovrastati da un piccolo pettine, contrastavano il bianco e il rosa del viso; le labbra mai serrate, ma sempre leggermente aperte, lasciavano vedere una dentatura ordinata; il seno a stento trattenuto”. E’ questo, un passo che in un certo senso ci ricorda quella tipica forma espressiva manzoniana: la scena molto singolare de’I Promessi Sposi: La madre di Cecilia, quando nel capitolo XXXIV il Manzoni descrive Cecilia, la piccola morte di peste che la madre compone amorosamente sul carro dei monatti (…).

      Giorno ci porta a vivere un viaggio compiuto nel territorio della sua memoria dove ci fa rivivere a fondo lo spirito di quel tempo, che appartiene ormai a un passato lontano, ai ricordi della sua infanzia.

      Quel tempo in cui c’era la necessità di non sprecare quel poco che si aveva, quel tempo, quando gli uomini portavano sui volti i segni del vivere quotidiano, quel tempo quando don Anselmo “Camminando verso casa si fermò ad osservare quegli uomini curvi sotto il sole” (p. 96).

       Direi ,tanti tasselli, dove Giorno vive in prima persona quando accade ai personaggi. E la storia si sente.

       Ahimè! Oggi come siamo cambiati! E quante cose sono cambiate.

    Una particolare e significativa figura del romanzo, quella di don Agostino, l’insegnante di matematica, “silenzioso e di poche parole”, che, “incontrava rispetto non solo per la sua preparazione riconosciuta da tutti, ma perché, come diceva il suo collega di Italiano don Anselmo, ci credeva veramente…Viveva immerso in un suo mondo che non era quello della Matematica, ma piuttosto quello della Filosofia e affrontava i problemi non come suole accadere, con distacco o con scetticismo,…ma con profonda convinzione e sofferenza,  partecipando attivamente alla discussione e alla soluzione dei problemi posti dalla storia del pensiero”.

     Da professore di Matematica, Don Agostino, cercava a tutti i costi, di dare una soluzione a problemi di ordine filosofico o Teologico. Come quando il collega di Teologia “lo aveva trasportato sul terreno scivoloso della Teologia. E lui: ”Senti, Gostì, io credo solo che 1+1+1 è uguale a 3. Non è vero. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono uguali a tre, ma a uno”.

       Ma qui, siamo in qualcosa di più alto!

      Scopo di questo libro credo sia quello di far comprendere, prima di tutto che Giuseppe Giorno è un Maestro che presta molta attenzione al ruolo della condizione sociale dei suoi protagonisti. Entrando nell'animo dei personaggi, rivive le loro vicende, partecipa ai loro sentimenti, specialmente quando a volte, un gesto, una battuta, una frase sono un po' il tratto che li caratterizza.

     Quindi, un romanzo, che ha un senso e un significato, soprattutto perché i personaggi sono uomini veri, conosciuti da vicino, interdipendenti nella loro umanità, oltre che nella loro dimensione pubblica. Le vicende, completamente aderenti alla realtà, nel proprio sviluppo e negli episodi che l’accompagnano, prendono lo spunto dal suo percorso di vita, intorno all'ambiente in cui egli stesso è cresciuto (…).

       Molti sono le domande, gli interrogativi, le riflessioni filosofiche e teologiche che l’Autore si pone e ci pone sul senso della vita, sull'essere e sul divenire, sulla nostra esistenza. Chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? Ma sono domande senza risposta. O meglio alle quali Giorno risponde con il nulla. L’unica risposta la rimanda alla fede cristiana: “Io sono la via, la verità, la vita”

       Mi avvivo alla conclusione.

     Quando una persona schiva e riservata, qual è il prof. Giorno, decide di scrivere, di rendere pubblico le proprie emozioni, i propri sentimenti non lo fa certamente per sfoggio d'erudizione, anche perché le persone veramente colte sanno sì molte cose, ma sono comunque consapevoli che sono tantissime le cose che non conoscono.

      E allora, la molla che spinge a scrivere, a raccontarsi, nasce dalla esigenza di   esternare, di raccontare le proprie emozioni, i propri sentimenti, di offrire agli altri on po’ di sé.

       E’ un’esigenza dell’anima, che scaturisce anche dalla voglia di lasciare una traccia di voler regalare qualcosa alla comunità in cui si vive.

     Giuseppe Giorno con questo suo lavoro ha avuto la capacità di scoprirsi, di mettersi in gioco e ha così regalato qualcosa di bello alla nostra cittadina.

     Il romanzo, mi auguro possa essere letto dagli studenti delle scuole di Luzzi perché scritto con estrema chiarezza, con un linguaggio ricco e vario che lo rende accessibile e godibile a tutti. GRAZIE.

 

Luzzi, 15 dicembre 2018

                                                                                                                                                           Salvatore CORCHIOLA

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Si è conclusa la presentazione del libro del Prof. Giuseppe Giorno alla Pro Loco la terra dei Lucij di Luzzi. Dopo i saluti istituzionali del Presidente della Pro Loco la terra dei Lucij Enzo Garofalo e dell'assessore al Comune di Luzzi Maria Leone, il corrispondente della Gazzetta del Sud, Claudio Cortese, ha coordinato gli interventi del prof. Salvatore Corchiola , della dott.ssa Marta Giorno e della dott.ssa Erminia Giorno. " C'era una volta" è un romanzo autobiografico in cui l'autore sente il desiderio di raccontare se stesso e trasmettere anche un messaggio di speranza alle nuove generazioni.

                                                                Pro Loco la terra dei Lucij di Luzzi

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