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Angelina DIMA
Frammentidivita

 

 

La poesia è un pellegrinare arduo e difficile, in essa risuona la voce della "verità". Aspra è la sua parola, terribile il cammino che conduce alla "terra promessa", di un domani sempre lontano ma che risuona fortemente nell'oggi. Il cammino di Angelina Dima è il nostro cammino, che si sporge sull'abisso delle nostre esistenze, fatte di destini coperti di paure e di nodose speranze. Secolari ansie inquiete si adagiano sul costato delle nostre ruvide vite.

 
La poetica di Angelina Dima riflette la densità della vita, un'esistenza rappresa dalla dura e vorace inquietudine del vivere che abbraccia e abbatte ogni resistenza. Non siamo di fronte alla gratuita caduta nel nulla, compiacente presa d'atto della sconfitta, scontato arrivo e deriva di un nichilismo di moda. La caduta inesorabile "nelle viscere dell'inferno" è un male che si "appunta", e per questo vero, afferma la Dima, e che sa essere sempre più crudele, dove la tregua fa più male di ogni supplizio, ma è lì che "l'indice di Dio affonda" e si invischia e traccia la rivolta riposizionando l'umano al Si alla vita. Una vita che sa ascoltare e guardare fino in fondo nelle pieghe più profonde, anche dove è forte il "gelido olezzo di morte" che cancella ogni sorriso e colora di freddo il "rigoglio della terra".

 
Il mattino di vite, che Angelina Dima disegna con la sua poetica, accoglie i "mestieranti di un vivere a caso", di chi conosce solo un destino piatto e sospeso come il vento, e che fa parlare anche le "bottiglie vuote" e i "sassi rugosi" in una liturgia che celebra se stessa.

 
Impariamo da queste dense pagine che il destino del poeta è la "nomadanza", vocazione e rischio che accompagna le nostre vite, cammino tortuoso nel deserto del tempo, aperto al nostro domani.


Cammino che è un aggirarsi che ispessisce la pelle, che inonda di sete il nostro corpo. Dune calve ci fanno compagnia, l'unico ristoro sono le lacrime, "unguento per insaporir la mia pellè" che scavano come gli anni, scrive la Dima, ma che solcano il sorriso di domani. Perché se il tempo di oggi è "senza nome", già "voci di ragazzini sporcano il vento", portano fiori al tempo, squarciando il velo della nostra indifferenza. La vita si fa libera, la vocazione del poeta è la ribellione, ogni scandalo è bestemmia. La parola posiziona la vita, "devo difendere quest'alba", ma se l'incarnazione accuserà lo scarto del male, ma anche il male conoscerà il disarmo del dono.


La verità del poeta è la sua stessa voce, il grido di condanna, l'indignazione di fronte al potere che decide su ogni destino. Un potere che si fa sempre più sfuggente e seducente, affina le sue armi e per questo più terribile e sfuggente, "oggi il potere non esige più neanche il contatto" suadente è il suo procedere, incatena l'anima alla carne, soffocando la "poesia" della vita.

 
La Dima vuole indicare la via alla poesia, una strada che non conosce la fuga, ma il coraggio della testimonianza, toccanti sono le pagine dedicate a Falcone e Borsellino, martiri della verità, o come quelle dedicate a Moro, vittima sacrificale dei moderni sacerdoti, apostoli senza bene, di chi conosce la "verità", fredda come un'ideologia che sa fabbricare solo " idoli". La prigionia dello statista è descritta come una "preghiera nuda" che sa parlare alla morte, silente e roboante grido per le coscienze impettite e infiocchettate del potere cieco in cerca di gloria.

 
La poetica di Angelina Dima sa prendere sul serio la vita, senza titubanze, il suo incedere è senza riserve, se il dolore prende forma nei nostri occhi, e la paura il tetro colore del freddo, è la solitudine che ci viene in aiuto, tracciando le nostre vite, dandole un nome. Nel tempo che si colora di deserto, l'inesorabile caduta viene riscattata da ogni abiezione con un sorriso.

 
Angelina Dima ci dice che la vita è un "silenzio inquietante", ma per un sospiro di un bambino vale la pena di difendere "l'alba nuova" che ci chiama a dire Si alla vita ogni giorno, inseguendo le "tracce della verità". 
Lo stile di Angelina Dima è asciutto ed elegante, segue il tempo delicato e forte della vita, non cerca colpi di teatro per attrarre il lettore, non cade mai nella retorica ampollosa, distaccata e acerba.


L'operazione letteraria è riuscita in pieno.

SANDRO DE BONIS 

CHIUNQUE TU SIA, TI HO AMATA!

Chiunque tu sia, ti ho amata!

Ti chiesi di prestarmi un grembo, mia compagna.

Lo inventasti!

Un roveto di spine e di petali rossi: vi rotolai.

Il sudore del tuo dolore nutrì il mio.

Mi accostai alle spine, non mi ferirono, eran le tue!

Ogni spina, un'assenza, un addio, un sogno disfatto,

un pianto nascosto, era il tuo che mai io vidi.

Forse, parole inventate, truccate, per incontrare i silenzi miei,

ma nei tuoi occhi io li vidi.

Occhi indulgenti, dritti, teneri, inquieti: mi riposai!

Arguta regina, scrigno prezioso di miserie millenarie,

mi apristi il tuo regno.

Ogni petalo consegnò al mio sguardo ogni stupore, fiaccato,

rapito da vandali depositari di un tempo ordinario.

Gitana dal lieve sorriso, ne risvegliasti il mio, slegando con mani sapienti le braccia

mie, tatuate di ricordi, spingendoli ad abbracci temerari.

Fu il tuo talento ad identificarne un altro, il mio.

Ogni pensiero, intuizione, non più inscatolato, era mio, e tu l'amavi.

Riuscita farfalla, sempre ti ammirai per i tuoi voli eccelsi, sublimi,

singolari, ma ahimè non mi appartennero.

Non è facile gareggiare da crisalide, tu aquila reale, io passero speronato.

E' con destrezza discreta che i tuoi passi da gazzella suggerirono ai miei "lenti",

il mio destino.

HO CREDUTO, HO AMATO

Ho creduto, ho amato,

spesso interrogandomi se le viscere del mondo

avessero partorito una creatura simile a me!

Quale identico sentire raggiunge punte dolenti,

di un reticolato che opprime

ogni atto di resistenza e mi conduce alla resa.

Il tutto si condensa,

e il grigiore nerastro delle nubi abbassa il mio sguardo.

Odo i miei pensieri, accompagnano il pulviscolo

e con esso li vedo disperdersi nell'aere.

Né barche, né vele a cullare le acque del mare.

Volti cruenti, pezzi di relitti, totem di notti esecrabili erratici,

schizzano come saette, segnalano rituali ormai estinti.

La decomposizione del divenire riempie pattumiere di giorni già dimenticati.

Bottiglie vuote rimandano rigurgiti triviali,

scarpe logore, ricordano destini ormai disfatti,

sassi rugosi, scoloriti non levigati, tagliuzzono la bellezza in ogni suo tratto.

Le mie orme sulla spiaggia non hanno né inizio né fine,

racchiudono dolori solitari, rabbie silenti, il logorio dei perché.

Le onde le ricoprono prima che passino giganteschi rumorosi,

ne calpestino il decoro.

Le mie lacrime cadono su ogni assenza.

Castelli di sabbia in disuso

indicano la frantumazione di ogni speranza.

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