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Antonio CROCCO

Antonio Crocco, nato ad Acri in Calabria nel 1926, è docente di Storia della filosofia medievale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno. Collaboratore di varie Riviste scientifiche (tra cui “Umanitas”, “Sophia”, “Sapienza”, ecc.), ha tra l’altro pubblicato: Gioacchino da Fiore (Napoli, 1960), che viene ora ripubblicato in seconda edizione interamente rinnovata in questa Collana di “Antichi e Moderni”; la traduzione con introduzione e commento dell’Historia calamitatum di Abelardo (Napoli, 1968); Introduzione a Boezio (Napoli, 1970, 1975²); L’ “itinerarium” filosofico di S. Agostino (Napoli, 1975).

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Il nome di Gioacchino da Fiore è passato alla storia circondato da un alone quasi di mito; e la sua figura, nonostante le appassionate ricerche degli studiosi, resta ancor oggi in gran parte avvolta in quell’atmosfera eroica di leggenda formatasi attorno al suo nome.

Del tutto insufficienti, per sostituire alla leggenda i lineamenti storico-biografici del grande Mistico calabrese, i rarissimi accenni rintracciabili nelle sue opere e le poche notizie contenute nei superstiti “frammenti” dell’Arcivescovo cosentino Luca, già suo discepolo e segretario nel monastero di Casamari.

     D’altra parte, le narrazioni degli antichi biografi cistercensi, la Chronologia di Giacomo Greco e l’Apologia di Gregorio De Laude, composte oltre quattro secoli dopo la morte di Gioacchino, sono troppo tardive e romanzesche per essere accolte senza riserve. In particolare la biografia del De Laude - che per la sua ampollosità, di cui è prova eloquente lo stesso titolo, potrebbe considerarsi come un esempio tipico dell'influsso esercitato sull'agiografia del fenomeno culturale dell'epoca, il secentismo - è tutta intessuta di fatti e di avvenimenti straordinari, che urtano spesso contro la nostra sensibilità critica, e nei quali non sempre è agevole discernere i pochi dati sicuri dai molteplici elementi fantastici e leggendari.

     Nell'epoca del Greco invece - la quale utilizza largamente i perduti documenti dell'archivio florense di S. Giovanni in Fiore ed è molto più sobria nello stile e nel racconto, ritenuto nel complesso veridico dagli stessi Bollandisti, che lo riprodussero parzialmente negli Acta Sanctorum - si può facilmente discernere un nucleo storico fondamentale,

che debitamente emendato nei dati cronologici ed integrato con altri documenti, permette una ricostruzione biografica, sia pure frammentaria, ma criticamente attendibile.

     Gioacchino nacque a Celico, presso Cosenza, verso il 1130. Fu figlio di un notaio, come attestano concordemente le fonti biografiche; non un contadino, o <<servo della gleba>> redento dalla vocazione monastica, come tentò di sostenere il Buonaiuti.

     Dalla sua prima giovinezza si conosce soltanto un pellegrinaggio in Terra Santa, compiuto probabilmente in occasione della seconda Crociata del 1148.

     Ma Gioacchino non era un crociato: era un mistico. Le antiche memorie rilevano con evidente compiacenza e con sfarzo di particolari la sua singolare tendenza al misticismo. E la stessa orazione liturgica del giorno della sua festa non esita a consacrare nella tradizione agiografica il celebre episodio del suo isolamento sul monte Tabor, dove egli, in una grotta selvaggia, avrebbe trascorso un'intera quaresima in contemplazione e preghiera, ricevendo fin d'allora il dono dell'intelligenza delle Scritture. Ma sia l'episodio del Tabor, che la giovanile esperienza mistica ad esso connessa, sono di evidente ispirazione leggendaria.

     In Oriente Gioacchino si trattenne a lungo, visitando Costantinopoli, la Siria, le località bibliche di Palestina ed i deserti della Tebaide, cari agli anacoreti medievali. A Gerusalemme, o negli eremitaggi silenziosi della Tebaide, ove aleggiavano ancora le ombre dei grandi Padri del deserto, gli balenò forse nell'accesa mente l'ideale monastico.

     Verso il 1152-53, di ritorno in patria, entrò nel famoso cenobio cistercense della Sambucina, presso Luzzi. Qui dovette compiersi la sua formazione culturale, con particolare predilezione per gli studi scritturistici, che costituiranno il centro della sua vasta produzione letteraria e faranno di lui il più originale esegeta del Medioevo ed uno dei più profondi conoscitori delle Sacre Scritture del secolo XII.

     Ma è del tutto leggendario che la fama della sua straordinaria dottrina ed il fascino della sua sapienza giungessero fino a Parigi, il maggior centro culturale dell'epoca, attirando nell'eremo sambucinese il grande teologo Pietro Lonbardo, col quale Gioacchino avrebbe discusso su alti problemi di teologia trinitaria.

     Dalla Sambucina, dopo aver terminato il suo tirocinio monastico, Gioacchino passò nel monastero di S. Maria di Corazzo, ove in seguito tenne con grande prestigio, per oltre un decennio, la carica di Abate.

     Maturava nel frattempo nella sua mente il disegno di esporre una nuova interpretazione della Scrittura; e poiché le costituzioni dell'Ordine esigevano per questo l'autorizzazione del Capitolo Generale, forse esitante a concederla, nella primavera del 1184 si recò a Veroli presso il Pontefice Lucio III, dal quale ottenne il permesso di scrivere, dopo aver esposto in una solenne udienza le linee generali delle sue concezioni esegetiche. In quell'occasione fu ospite della badia cistercense di Casamari, sita appunto nei pressi di Veroli, e qui incontrò il futuro biografo Luca, che scelse come suo amanuense e segretario durante la permanenza nel cenobio casamarense.

     Due anni dopo, nel 1186, si recò a Verona dal nuovo Pontefice, Urbano III, che confermò le facoltà concessegli dal suo predecessore e lo esortò a scrivere un commentario sull'Apocalisse.

     Secondo un'antica tradizione veneta - che ha lo stesso valore della ricordata tradizione sambucinese - da Verona Gioacchino si sarebbe recato a Venezia per ordinare la composizione dei celebri mosaici <<profetici>> della Basilica di S. Marco, raffiguranti <<ante eventum>> S. Francesco e S. Domenico, adorni degli abiti dei rispettivi Ordini, e contraddistinti il primo dalle <<stimmate>> ed il secondo dal <<libro>>. Ma si tratta evidentemente di tardive invenzioni leggendarie  dei Gioachimiti francescani.

     Ed eccoci agli anni della grande crisi spirituale di Gioacchino.

     Dato lo stato di inquietudine creatosi in lui per i gravi contrasti con l'Ordine, ben presto la regola cistercense dovette apparirgli difforme dal suo altissimo sogno di perfezione. Fin dalla fanciullezza, il richiamo della solitudine, partentesi dalle vergini foreste della Sila, aveva fatto sussultare il suo animo assorto. Evocato dallo sconforto spirituale, l'antico richiamo si ridestò travolgente: e Gioacchino preferì alla dignità abbaziale di Corazzo il silenzio di Pietralata.

     Da Pietralata, seguito dal fido discepolo Raniero, ascese fra le pinete selvagge dell'altipiano silano, ove fondò un cenobio, dedicato a S. Giovanni, il prototipo della vita contemplativa, e battezzato col nome simbolico-augurale di Fiore.

     Il clamoroso gesto di secessione allarmò i Cistercensi: un Capitolo generale del 1192 richiamò perentoriamente il fuggitivo, ma invano.

     Le apprensioni dei Cistercensi non si dimostrarono infondate: un buon numero di monaci ardimentosi seguirono infatti il trasfuga, incuranti della sentenza di proscrizione emanata contro di lui.

     Sorgeva così il nuovo Ordine Florense con una propria regola monastica, oggi perduta, approvata da Celestino III con la bolla <<Cum in nostra>> del 25 agosto 1196.

Degli ultimi anni della vita di Gioacchino ben poco ci è noto. Furono certo anni di intensa e multiforme attività, spesso amareggiati da aspri contrasti con l'Ordine rivale.

     Nel 1200, con mano tremante di settuagenario, Gioacchino redasse il suo Testamento spirituale. Due anni dopo, il 30 marzo del 1202, <<in sabbato Sitientes>>, si spense serenamente nel monastero di S. Martino di Canale, ripetendo ai discepoli in lacrime: <<Amatevi gli uni gli altri, come Gesù ci ha amato>>.

I suoi resti mortali furono solennemente trasportati nell' Archicenobio di S. Giovanni in Fiore, ove per vari secoli ebbero culto pubblico, di cui l'eco non si è ancora completamente spenta.

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Gioacchino da Fiore appartiene alla serie di quei personaggi <<immutatores saeculi>>, che segnano una svolta nella storia della spiritualità e danno l'impronta e la denominazione ad un'epoca; ed è ormai comune nella storiografia medievale la classificazione di un'<<età gioachimita>>.

Ermeneuta dell'Apocalisse, escatologo (il più grande escatologo del Medioevo), filosofo e teologo della storia, <<profeta>> dell'età dello Spirito, Gioacchino rivive in quest'opera in tutta la sua singolare e complessa dimensione storica e dottrinale.

E con lui rivive, nelle sue fasi più rilevanti e nel suo molteplice articolarsi, il vasto movimento del Gioachimismo, che ebbe notevoli riflessi sulla simbologia e sulle concezioni etico-religiose della Divina Commedia e, col suo mito della << universalis renovatio>>, costituì il fermento più vivo della spiritualità italiana ed europea degli ultimi secoli del Medioevo.

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Questo saggio ricostruisce l’«itinerarium» filosofico di S. Agostino nei suoi tre fondamentali momenti teoretici: il superamento critico della scepsi; la teorizzazione dell’autocoscienza e la metafisica della «veritas» interiore; il trascendersi dell’io autocoscienziale ed il conseguente attingimento, nella sfera ultrasoggettiva, del fondamento ontologico o del supremo Principio fondante della verità, appresa e spiritualmente fruita per partecipazione dall’autocoscienza. Se non è una «lettura» interamente nuova di Agostino (per alcuni aspetti è anche questo), è indubbiamente una «reductio ad unum», coerente ed organica, delle componenti essenziali della ricca e assai complessa tematica speculativa agostiniana, secondo un orientamento ben specifico e rispondente al canone criteriologico di separare e depurare la teoresi di Agostino dalla mistione di tutti gli elementi allotrii di carattere biblico-teologico ed ascetico-religioso in essa presenti o sovrapposti, allo scopo di offrire un preciso profilo della «dimensione filosofica» del più grande pensatore cristiano.
Antonio Crocco, nato ad Acri in Calabria nel 1926, è docente di Storia della filosofia medievale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno. Collaboratore di varie riviste scientifiche (tra cui «Humanitas», «Sophia», «Sapienza», ecc.), ha tra l’altro pubblicato: ’Gioacchino da Fiore e il Gioachimismo’ (Napoli 1960), riedito in seconda edizione interamente rinnovata in questa collana di «Antichi e Moderni» (Napoli 1976); la traduzione con introduzione e commento dell’Historia calamitatum’ di Abelardo (Napoli 1968); ’Introduzione a Boezio’ (Napoli 1975, 2° ed.)

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Abelardo (1079-1142), la più grande e discussa figura della storia intellettuale europea del secolo XII, rappresenta a può raffigurare emblematicamente l'<<altro versante>> del Medioevo - un Medioevo ancora in parte inesplorato, innovatore e contestatore, percorso da potenti fermenti umanistici, che introduce la <<ratio>> problematizzante anche all'interno della teologia e della <<fides>> e cerca di sottrarsi ai condizionamenti delle tradizionali strutture culturali per aprirsi una nuova ed autonoma via di ricerca, esprimente una nuova coscienza speculativa - oppure questa prospettiva storico-ermeneutica, con i suoi forzati esiti dovuti ad una certa storiografia romantico-ottocentesca, che si spinge incautamente fino a celebrare Abelardo come il <<fondatore del razionalismo>> e l'<<araldo del libero pensiero>>, è sostanzialmente il frutto di una mistificazione moderna? E' il problema che l'Autore s'è proposto di verificare criticamente in questo saggio, rimeditando e ricostruendo sulle fonti i momenti e gli aspetti più significativi dell'itinerario esistenziale e dell'esperienza speculativa del filosofo di Palais, attraverso un lavoro d'analisi insieme storico e teoretico, volto a cogliere e a fare emergere tematicamente quei dati e motivi caratterizzanti, che conferiscono alla sua figura e alla sua opera un peculiare significato e una fondamentale funzione di <<rottura>> e di <<renovatio>> nella storia e nell'evoluzione della cultura medievale.

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Anicio Manlio Severino Boezio, discendente dalla nobile famiglia degli Anicii, che negli ultimi secoli dell’Impero si era convertita al Cristianesimo ed era diventata una delle più prestigiose e potenti del patriziato, nacque a Roma tra il 470 e il 480 d.C. La data precisa, per l’assoluto silenzio delle fonti, è assai controversa; nella ridda delle ipotesi, noi, che nella precedente edizione di questo libro avevamo preferito supporre che <<l’ultimo dei Romani>> fosse nato nel 476, l’anno della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, ora riteniamo con l’Obertello che la data più sicura sia il 475, che ben s’accorda con l’anno del consolato boeziano, il 510, su cui non esistono dubbi; se infatti Boezio fu elevato al consolato all’età normalmente richiesta per il conseguimento dell’alta carica, cioè a 35 anni, doveva essere nato appunto nel 475.

     Rimasto orfano in tenera età (della madre nulla sappiamo, mentre il padre, Flavio Boezio, console sotto Odoacre nel 487, dovette morire poco dopo), il giovinetto Boezio fu accolto ed educato prima nella famiglia di Festo, capo del Senato, e più tardi in quella del senatore Aurelio Simmaco, pronipote del grande oratore e appassionato difensore del Paganesimo, Quinto Aurelio Simmaco, che nel 384, nella sua famosa Relatio de ara Victoriae, aveva chiesto all’imperatore Valentiniano II di ripristinare nell’aula del Senato l’altare della Vittoria, suscitando lo sdegno e la reazione di Sant’Ambrogio.

     Sotto la sapiente guida di Simmaco, che egli chiama <<pretiosissimum generis humani decus, … vir totus ex sapientia virtutibusque factus>> e che fu probabilmente il suo principale maestro, Boezio si dedicò agli studi letterari, filosofici e scientifici con una specie di furore giovanile, tanto che, secondo testimonianza di Ennodio, <<l’intenso studio lo aveva quasi trasformato in un vecchio, a dispetto della giovane età>>.

     In passato, nell’intento di giustificare, attraverso un rapporto di siscepolato diretto, le dipendenze del suo pensiero dai modelli dottrinali degli ultimi grandi maestri del Neoplatonismo, si riteneva che Boezio fosse stato, per diciotto anno, alunno dell’Accademia Ateniese; e si sosteneva inoltre che al ritorno, avesse sposato la poetessa Elpide, figlia di Festo, morta pochi anni dopo a Pavia e sepolta nella chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro. Ma ormai i critici hanno dimostrato interamente inventate e leggendarie le due notizie, soprattutto la seconda, sorta dall’errata interpretazione di un antico epitaffio collocato presso la primitiva tomba di Boezio e creata dalla fantasia del celebre agiografo medievale Iacopo da Varagine.

     Compiuto il cursus studiorum, che comprendeva, com’è noto, le sette arti liberali del <<Trivium>> e del <<Quadrivium>>, Boezio iniziò, ancora giovanissimo, il suo cursus honorum, esordendo nella vita pubblica con un esemplare programma etico-politico, ispirato ai principi della <<sofocrazia>> platonica. Egli stesso, dando uno sguardo retrospettivo alla sua vita, compendiò tale programma nella prosa IV del primo libro della Consolatio, dove, prima di rievocare i fatti memorandi della sua attività politica, dichiara di aver accettato le pubbliche cariche per seguire il monito di Platone, che aveva esortato i sapienti ad assumere le redini del governo, <<per impedire che esso fosse lasciato nelle mani dei malvagi, arrecando danno e rovina ai buoni>>, e aveva additato il modello di governo degli stati nella celebre massima: <<Felici quegli stati che sono retti dai sapienti o nei quali i governanti si dedicano, allo studio della sapienza>>. Rivolgendosi alla Filosofia, l’alta interlocutrice del suo immaginario dialogo, egli così conclude: <<Mi sei testimone tu e quel Dio, che t’infonde ai sapienti, che nessun’altra ambizione, fuor che quella del pubblico bene, mi ha indotto ad accettare le magistrature>>. …

… Nell’assolvere i compiti connessi agli incarichi affidatigli, Boezio rimase sempre fedele al suo programma etico-politico: il bene pubblico, gli ideali di giustizia e di rettitudine, la difesa degli oppressi dai soprusi dei pubblici funzionari avidi e corrotti. …

…  Nel 522, dopo l’elevazione al consolato dei due giovanissimi figli, alla quale si è già accennato, Boezio raggiunse il vertice della sua carriera politica, con la nomina a Magister officiorum, cioè cancelliere del regno e direttore supremo di tutto il personale della corte e dell’amministrazione statale. Tale nomina, con cui probabilmente Teodorico intendeva soddisfare l’orgoglio del patriziato e del Senato  romano per tenerseli fedeli mentre si profilava la minaccia di un loro ravvicinamento a Bisanzio, suscitò a corte non pochi malumori e riaccese contro Boezio i vecchi rancori dei funzionari goti, che mal sopportavano la sua intransigenza e il suo inflessibile attaccamento alla giustizia. Si formò così contro di lui un vasto movimento di opposizione, capeggiato da un ambizioso funzionario della cancelleria, il referendarius Cipriano, che attendeva l’occasione per colpire il Magister officiorum, nel quale vedeva il maggior ostacolo per la sua ascesa politica.

     L’occasione fu offerta dagli avvenimenti d’Oriente, dove l’imperatore Giustino, salito sul trono di Bisanzio nel 518, aveva iniziato una politica d’intolleranza religiosa, mettendo al bando dell’Impero i Manichei e privando gli Ariani delle loro chiese. I provvedimenti antiariani, emanati, a quanto sembra, nel 523, suscitarono l’ira di Teodorico, ch’era appunto di confessione ariana e a capo di un popolo ariano; … Nell’animo del re goto s’insinuò così il sospetto che Bisanzio e Roma tramassero segretamente contro il suo regno. A questo punto, il referendario Cipriano accusò il senatore  Albino di avere inviato delle lettere segrete all’imperatore Giustino contenenti notizie d’una congiura contro Teodorico.

     Contro la grave accusa, che coinvolgeva tutto il Senato, insorse Boezio, dichiarando solennemente dinanzi al re: <<L’insinuazione di Cipriano è falsa; ma se Albino ha fatto ciò  di cui lo si accusa, anch’io e tutto il Senato unanimemente l’abbiamo fatto. Ma è falso, o re>>

     Di fronte a questo fiero atteggiamento di Boezio, il delatore Cipriano ebbe un momento di esitazione, poi lo prese in parola, affermando di avere prove che anche lui era complice di Albino.

     Così cominciò il processo contro Boezio…

     … A Boezio, durante il processo, non fu concesso di difendersi; poté farlo solo di fronte alla sua coscienza, nella solitudine del carcere …

     … Ma torniamo al racconto del dramma finale di Boezio, gettato in carcere, in attesa della sentenza, trovò nelle sue alte meditazioni filosofiche l’energia morale per superare lo stato di smarrimento e ricomporre lo spirito turbato dall’inattesa sventura. Da questa meditazioni nacque la Consolatio Philosophie, composta nella sua stesura definitiva in pochi mesi conservataci dalla pietà di qualche intimo, forse del figlio Flavio Simmaco o di Rusticiana. …

     … Secondo la cronologia accolta dal calendario pavese e dai Bollandisti, Boezio fu giustiziato il 23 ottobre del 524 e sepolto successivamente nella chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro, come ricorda anche Dante nel canto X del Paradiso (127-29):

Lo corpo ond’ella fu cacciata giace

giuso in Cieldauro; ed essa da martiro

e da essilio venne a questa pace.

A. Boezio, circondato dalle nove Muse, appare la Filosofia.
Miniatura del sec. XII. Cod. 242, f. 3r, della Bibl. Naz. Vienna.
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LA CONSOLATIO PHILOSOPHIAE DI BOEZIO

Saggio critico-interpretativo

 

     La Consolatio Philosophiae è il capolavoro di Boezio e una delle opere più famose del Medioevo, che ce l’ha tramandata in oltre 400 manoscritti e in numerosi commentari.

     La Consolatio è una specie di <<romanzo filosofico>>, misto di prose e di versi, che imita nella struttura letteraria il ritmo prosometrico delle Satyrae Menippeae di Terenzio Varrone e soprattutto quello del De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella. Si compone di cinque libri e comprende complessivamente 39 prose e 39 carmi polimetrici, così suddivisi: il primo libro comprende sette metri (così sono comunemente denominati i carmi della Consolatio) e sei prose; il secondo otto prose e otto metri; il terzo dodici prose e dodici metri; il quarto sette prose e sette metri; il quinto sei prose e cinque metri. I brani poetici, oltre a rompere la monotonia del racconto o del dialogo, hanno la funzione di riposare lo spirito, dopo l’ardua trattazione dottrinale, e spesso servono anche ad illuminare, con suggestive immagini liriche, la trattazione stessa.

Libro Primo

     La Consolatio comincia con quest’accorata elegia, che è come il preludio di un dramma; il dramma del prigioniero, che, nella solitudine del carcere, ricorda, come amaro rimpianto, i tempi lontani e felici della giovinezza, illuminata dal sorriso delle Muse, che la sua immaginazione evoca ora come creature reali, come le sole fide compagne nella sventura, che gli ha amareggiato ed abbreviato la vita.

 

Io,che in passato nel vigor de l’estro,

cantai carmi giocondi, or desolato,

tristi metri intonar debbo; e d’intorno

ad ispirarmi siedono le Muse,

ch’han lacere le vesti. Lagrimosi

rende i lor volti l’elegiaco canto.

Sol esse mi seguir ne la sventura,

fide compagne, né timor veruno

poté distorle. Furo un d’ la gloria

de la mia verde gioventù felice

ed or consolan de la mia vecchiezza

la triste sorte, poi che a me precoce,

affrettata dai mali e dal dolore,

giunse vecchiezza. Scendono dal capo

anzitempo canuti i miei capelli

e sul misero corpo, già disfatto,

s’allenta e trema la rugosa pelle. ...

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