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Porpore Latine di Luigi Genesio Coppa

 

     Raccolgo in questo volume, in cui l’idea poetica, se pur v’è, cerca di ammantarsi delle tradizionali “porpore” classiche, un certo numero di componimenti in versi, vari di tempo, di valore e di ispirazione.

     Confido che ad essi non si vorrà richiedere la severa connessione costruttiva e la pacata rigidità logica d’un sistema filosofico, ma soltanto quel che essi possono e voglion dare: della lirica pura cioè, figlia del momento, triste o lieto, che la determina psicologicamente e artisticamente.

     Dire che son del tutto soddisfatto della mia poesia, ora specialmente che mi è dato rivelarla nel suo insieme più significativo, sarebbe dire il falso; il che, anche in una prefazione, non mi sembra permesso.

Qualche cosa di buono c’è; e in grazia di questo e in grazia della consolazione che, soggettivamente, il comporre versi spesso mi ha procurato, m’induco ad affrontare le così dette tempeste della pubblicità.

     Non ch’io speri trasfondano in altri le mie intime consolazioni, che potrebbe pur darsi, ma perché vi sia una prova in più della missione consolatrice dell’arte. Debole ragione forse, ma non del tutto invalida a chi non ne ha di migliori da porre innanzi, e, in ogni caso, perfettamente innocua nelle sue conseguenze. Il dilagar del contagio non farebbe che arrecar sollievo alla crisi dell’industria tipografica.

     Siamo pazienti, se non benevoli, coloro cui la sorte porrà sotto gli occhi questo volume, e perdonino, se non alla ingenua vanità letteraria dell’autore, all’indubbia sincerità del canto.

Roma, febbraio 1936

                                                                                                  LUIGI GENESIO COPPA

AURELIA MARCIA*

I

Vergine Aurelia, or che il settembre ride

d'opimi tralci rosseggianti al sole,

e il lieto umor, che dalla vite cole,

vermiglio è come il sangue che conquide;

 

or che dai poggi in festa si divide

l'alterno canto delle vignaiole,

e risaluta, pria ch'a noi s'invole,

la rondinella le sue gronde fide,

ben questa è l'aurea conca ove volesti

tu sede e soglio al tuo dominio invitto,
delle plebi nel pio favoleggiare;

e del dono, onde a te furono le agresti
genti a disio, le culte in gran dispitto,
grate or desse t'infiorano l'altare.

II

Dalle cime del Sila aspre ed algenti
scendono a te le schiere montanare:
vince la fede l'urlo dei torrenti,
vince la fede turbini e fiumare.

Non lusinga d'ombrìa, non d'arridenti
vampe d'ascoso e dolce focolare
suadente invito a le infiammate genti
tarda il diritto e infaticato andare.

Erta non fiacca, nè torpore assonna,
quando la vecchia umanità conduce
l'aereo scampanio delle speranze.

Verso il baglior d'un'irraggiunta luce
marcia inesausta. Ahi, nel marciar s'indonna
sol dell'ebbrezza delle lontananze!

 



* Il corpo della martire di Cristo Aurelia Marcia si venera in Luzzi (Cosenza) nella chiesa di S. Giuseppe, già di patronato dei Principi di Bisignano. Nel mese delle vendemmie, allietato dai caratteristici canti a voci alternate delle vignaiole, han luogo, ogni anno, solenni festeggiamenti in onore della Santa, e ad essi accorrono numerosi pellegrini dai paesi circostanti e dalle più lontane borgate silane. E' tradizionale il saluto con le campane agli stanchi gruppi, giungenti a piedi per le disagevoli vie delle montagne. A chiarimento del primo sonetto, è bene aggiungere che una pia leggenda, molto diffusa nel popolo e, del resto, non nuova nell'agiografia, narra come, trasportandosi dalle catacombe romane in Calabria, per volere del luzzese card. Giuseppe Firrao, l'urna contenente il corpo della Martire, essa divenisse pesantissima ogni volta che si tentasse di avvicinarla verso borghi  città non gradite alla Santa, e si facesse invece lieve come piuma, si muovesse anzi miracolosamente da sola, non appena i portatori accennarono a condurla come Conca d'oro. Conca d'oro, sempre secondo la leggenda, sarebbe l'antico nome di Luzzi. In questo particolare però, la leggenda non risponde sicuramente alla verità storica. Si sarà trattato d'una comune denominazione popolare, giustificata dalle condizioni di feracità e floridezza delle campagne luzzesi.

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SAN FRANCESCO DI PAOLA *

 

   O Francesco d’Alessio, in te grandeggia

l’avita fede e di Gesù l’ardore,

non quando il plauso popolar t’echeggia

d’intorno con indomito fragore,

 

né se dal monte la cadente scheggia

al cenno tuo s’arresta incantatore,

ma quando nelle pie mani rosseggia

la moneta del Re pien di tremore.

 

Nel fiero gesto, in cui di Fede il raggio

la virtude natia sublima e immilla,

onde al suol piega Ferrandino il guardo,

 

cerro dei venti al turbinar selvaggio,

ben l’atleta di Dio s’erge e sfavilla,

e di Brezia il figliuol puro e gagliardo.

 

 

* S. Francesco di Paola, difensore degli umili al punto da esser perfino considerato un ribelle dalle autorità del tempo, osò alla Corte di Napoli spezzare, con parole di rampogna, dinanzi al Re Ferdinando d’Aragona, una moneta, donde, a miracolo, sgorgò vivo sangue, sangue dei sudditi feudalmente oppressi. Notissime sono poi le sue vicende presso la Corte di Francia, anche perché trasportate sulla scena da Casimir Delavigne nel “Louis XI”.

     A Paola, nel dintorni del Santuario da lui fondato e a lui ora intitolato, si mostra al visitatore un enorme masso, che, staccatosi dalla montagna, fu dal Santo fermato in nome di Dio sulla ripida china in posizione non molto d’accordo con le normali leggi dell’equilibrio.

TI RINGRAZIO, SIGNOR…

 

Ti ringrazio, Signore; ecco prostrata

ai tuoi piedi l’affranta anima mia,

per la gioia e l’amor solo creata,

chiara di luce e vaga d’armonia.

Nel fosco gorgo d’aspra correntia

or che me l’hai travolta e frantumata,

non ha che un grido il desolato core,

rivolgendosi a Te: Grazie, Signore!

 

 

Grazie, Signore! Tu non creasti invano

l’orror notturno e la rosata aurora,

la cima bianca e l’assetato piano,

l’anima ed il dolor che la divora.

Miser chi soffre, e non conobbe ancora

che tu versasti sul cammino umano

tanta di pianto onda crudele e ria,

perché arridesse al mondo più poesia!

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INVOCAZIONE

 

   Pura e soave Vergine Maria,

nelle tue mani bianche al par del giglio,

come alla madre s’abbandona il figlio

abbandono così l’anima mia.

Tu che conosci l’orrida agonia,

onde un’ignota colpa il cuore espia,

volgi al mio duolo l’amoroso ciglio,

pura e soave Vergine Maria.

                   CALABRIA *

 

  Calabria madre, oggi ritorna il figlio

sazio d’audaci mete e lunghi errori,

l’occhio ancor pieno dei fallaci ardori

che avvampan li orizzonti dell’esiglio.                         1

 

  Troppo vide e soffrì: l’incauto chiese

lungi quel ch’era presso; la fontana

della limpida gioia umile e umana

sprezzò, e di fonti torbide s’accese.                           2

 

  Senza più sogni torna; pur gli canta

una voce sottil, nel cor già reo,

il greco mito del nettunio Anteo;

nel suol nativo prospera la piana.                              3

 

  Eccomi a te, terra dei padri: scorgo

da lungi le tue vette incoronate

di boschi, di canzoni e di fatate

leggende, onde si pasce a sera il borgo;                    4

 

  e par che mi saluti ogni villaggio

con campane a distesa, allegre e chiare,

dolce mi par fin delle tue fiumare

lo strepitante sonito selvaggio.                                 5

 

  Salute, o terra di Scalea, salute,

Dino petrosa, San Nicola Arcella,

salute, malinconica Cirella,

brullo scenario di rovine mute!                                6

 

  Fresca Diamante, ove l’orezzo effonde

più acuto all’aure il verde cedro in fiore,

aerea Belvedere, a cui le prore

recan le prede delle tumide onde,                            7

 

  Cannone di Cetraro, ai barbareschi

adamantino, Paola sul macigno,

Amantea sempre tinta di sanguigno,

onde ancor piange il fiore dei franceschi,                  8

 

  nel rivedervi, una vorace fiamma

sento che m’arde e mi rinnova il core,

come fa il volto d’un rimpianto amore,

come fa il bacio della dolce mamma.                        9

 

  Tutta ti scorgo or nella mente amara,

vecchia Calabria: vivi nel figliuolo

bella coma le donne di Tiriolo,

di Gimigliano e di Marcellinara.                                10

  Dalle rupi selvagge del Pollino

all’Aspromonte, nume di due mari,

dal Lacinio, ove infranti Hera ha gli altari,

dalla Sila nembosa al Reventino,                              11

  da la Russa, L’Incudine e la Grilla,

liete nel mare di squamosi guizzi,

alla roccia incombente di Palizzi,

agli ululanti vortici di Scilla,                                     12

  tu sei, davanti agli occhi ammaliati,

stesa sovr’ampia coltrice azzurrina

come una basilissa bizantina

rilucente di gemme e di broccati.                             13

 

  Ecco Cosenza, cui Crati e Busento

narrano storie d’armi e di leuti,

Catanzaro dei venti e dei velluti,

magnifica di fede e d’ardimento;                              14

 

  ecco Reggio pensosa, ed alla morte

sacra e alla gloria, a cui scende Morgana

dai purissimi cieli di sua vana

iridata parvenza a ornar le porte;                             15

 

  ecco Rossano dall’Evangelario,

l’industre Pizzo dalle rosse impronte,

ecco Vibo e lo scoglio di Belmonte,

dove un fedele dorme solitario,                                16

 

  e poi Stilo, al martirio onde si mosse

fra Tommaso il ferrigno, e, tra mantelli

di fitti boschi, Soveria Mannelli

tutta baleni di camicie rosse.                                    17

 

  Vedo i tuoi templi, vedo le colonne

del passato, che l’edera disposa:

oh, ritrovare in te, vecchia Certosa,

le antiche preci della Fede insonne!                          18

 

  Oh, raggiunger la calma alta, perfetta,

dall’umana di risse aspra tormenta,

sovra i piani di Sibari opulenta,

sulle rovine de La Roccelletta!                                  19

 

  E te rivedo ancor, Luzzi natia,

sulla balza silana appollaiata,

fra pini e olivi bianca come fata,

dalla Civita fosca al Sant’Elia.                                   20

 

  Risorge nel pensier la settembrina

fila delle tue donne alto preganti

nella mistica Cava, e i fuochi erranti

su, pei sentieri della Sambucina.                              21

 

  Odo trascorrer per le vie tacenti,

nella notte di stelle auree gemmata,

la rustica d’amore serenata

d’una chitarra ai sospirosi accenti:                           22

 

  << Luzzese bella come rose e fiori,

<< hai gli occhi come stella di Natale,

<< aquila sei d’argento e porti l’ali,

<< ti crescono le penne quando voli >>.                 23

 

  Come la bianca vergine luzzese,

cui stormo alato di canzoni ammanta,

aquila sei pur tu, Calabria santa,

che non teme dei turbini le offese.                          24

 

  Ben adunò dei secoli il fluire

fragor di nembi al tuo bel capo intorno;

sempre anelando ad un novello giorno

delle procelle tu vincesti l’ire,                                  25

  salda nel tuo dolor, che tempra e affila

le volontà su coti di diamanti,

come le querce tue vaticinanti

ai tempestosi soffi della Sila.                                          26

 

  L’ora or sonò. Dall’Istmo, dove invano

la minaccia di Spartaco divampa,

da Bisignano, dove ancor s’accampa

l’odio torvo d’Annibale Africano,                                     27

 

  da Cosenza, onde al soglio stagirita

vibrò Telesio il fulmine inquieto,

da Amendolara di Pomponio Leto

s’innalza il canto della nova vita.                                    28

 

  Sorgi, vecchia Calabria generosa,

ad ogni tema, a ogni viltade infesta !

Marco Berardi, re della foresta,

sarà alfiere alla marcia portentosa.                                 29

 

  L’ardor di Nilo, il cuore di Francesco

animeranno il passo degli atleti;

Acri, darai tu il canto dei poeti,

come il Muccone tuo sonante e fresco.                            30

 

  Ma non per te raccoglierai la fronda

dell’opima vittoria, o terra mia;

nova tu intreccerai corona pia

alla chioma d’Italia vereconda.                                       31

 

  Tutto a Lei tu donasti: il nome augusto,

fremito di poeti e di guerrieri,

il polline di Grecia, onde ai severi

detti di Roma si fe’ il mondo augusto;                             32

 

  per le triremi recidesti il legno

delle tue selve, e al cesellato avorio

dei templi, dove al Settimo Gregorio

rispondevano gli angeli a sostegno,                                33

 

  intrecciasti l’odor terebentino

delle tue travi, aduse agli aquiloni:

per Lei nutristi seme di leoni

al roggio San Michele e al Sabotino.                               34

 

  Tutto a Lei tu dirai, memore in core

del giorno, in cui, pei ceruli e tranquilli

flutti, vedendo, l’ultima, i vessilli

dileguarsi di Cesare Signore,                                         35

 

  ai Numi dell’Imper, nell’indovina

chiostra del petto, alzasti altare adorno

ed in fede attendesti il lor ritorno

sui lidi di Melito e Favazzina.                                         36

 

  Piena di fati or volge l’ora: al cenno

che verrà, marcerai; l’aquile invitte

voleranno secure alle prescritte

mete, a spezzar la daga ostil di Brenno.                          37

 

  Tu, fedele nei secoli, non oro

offrirai, non di gemme splendor  vano;

povera come il Santo paolano

veleggiante sull’acque di Peloro,                                    38

 

  menti e braccia darai per l’aspra gara,

cuori di bronzo alle battaglie ultrici,

chè feconde e perenni hanno matrici

le donne sangue e latte di Bagnara.                               39

 

 

  Per la terra nemica devastata

appronteremo il sale d’Altomonte,

per le selve navali all’orizzonte

daremo i pini della Fossiata,                                          40

 

  nutriremo di gelido macigno

la bocca del cannone inaridito,

chè le viscere dure hanno granito

più dell’acciaro solido e ferrigno.                                    41

 

  Nel giorno atteso, scenderem dai monti,

sbucherem dalle valli umide e ombrose,

ci adunerem nei piani, ove le rose

non conoscon pallore di tramonti,                                  42

 

  bruni pastori domator di lupi,

fervidi artieri dalle industre mani,

uomini del pensiero e capitani,

agitator di belve per dirupi,                                           43

 

  e, sotto il sol, che di dorati lampi

inonderà, fra i teneri frumenti,

scure teste di blandi adolescenti,

grige chiome di adusti altor di campi,                             44

 

  in serrata falange, nell’incanto

della natura in fiore, partiremo,

e, con voce possente, intoneremo

del passo al ritmo, il nostro vecchio canto:                     45

 

  << Su’ Calavrisi, Calavrisi sugnu,

<< su’ numinatu ppe tuttu lu regnu:

<< chi vo’ de mia canzuni li nne dignu,

<< d’amuri, gelusia, partenza e sdegnu.                        46

 

  << Mpacci l’àutri cità nu mmi cumpunnu,

<< tutti li cosi li fazzu ccu mpignu;

<< vinissi avanti cca tuttu lu munnu,

<< l’onuri di Calabria lu mantiegnu >>.                         47

 

  Risonerà, terror dell’inimico,

il siero canto sovra monti e mari,

si spanderà sui fiumi solitari,

penetrerà dei boschi nell’intrico,                                    48

 

  solleverà nelle profonde gole

echi rombanti, e le bramose belve

ricercheran le più riposte selve,

timide, a rinserrar l’amata prole.                                    49

 

  Sol da lungi le madri, le sorelle

pure della Borrelli in Aspromonte,

ritte sui limitari, con la fronte

bianca siccome palpito di stelle,                                     50

 

  tese le braccia desolate in forte

gesto che benedice, senza pianto,

ascolteran dei figli in marcia il canto

dileguar verso l’albe della Sorte.                                     51

 

  febbraio 1934   

     * Strofa 6ᵃ. - Le rovine di Cirella Vecchia sono visibili dalla linea ferroviaria Napoli-Reggio, fra Scalea e Belvedere. Il paesello fu distrutto dalla flotta francese, nel 1806.

     Strofa 8ᵃ . - Amantea ebbe a subire, nel corso dei secoli, diversi assedi e devastazioni. Famoso in Calabria l’assedio del 1806, da parte del generale francese Verdier. Il popolare scrittore cosentino Nicola Misasi ne fece oggetto di un romanzo non del tutto dementicato: <<L’assedio di Amantea>>.

     Il Cannone è una località di Cetraro, dove si scorgono ancora residui di apprestamenti difensivi contro i barbareschi.

     Strofa 12ᵃ. - La Russa, l’Incudine, La Grilla, graziosi nomi di scogli esistenti nell’Ionio, presso Roseto Capo Spulico.

     Strofa 14ᵃ. -  Catanzaro è chiamata la città dei tre V: venti, velluti e Vitaliano, santo patrono. Circa i venti è notissimo il detto:

Il trovare un amico è così raro 

come un dì senza vento a Catanzaro.

Quando ai velluti notiamo che, in antico, Catanzaro ebbe fama più che italiana per i tessuti di seta. Famoso il damasco verde, stellato in oro, donato nel 1397 a re Ladislao, opera dei telai catanzaresi. L’industria declinò in seguito alla peste del 1668.

Carlo V concedette nel 1531 alla città i titoli di << magnifica e fedelissima >> e un nuovo stemma, con l’aquila imperiale e il motto << Sanguinis effusione >>, per la resistenza al Lautrec nel 1528. Ma non fu questa l’unica vicenda bellica di Catanzaro.

     Strofa 16ᵃ. – Il Codex rossanensis o purpureus del VI secolo, compilato in caratteri unciali, con lettere d’argento su pagina purpurea, e luminosamente miniato, contiene il testo greco degli Evangeli di S. Matteo e di S. Marco, ed è conservato nell’Episcopio di Rossano.

     Dire del dramma muratiano di Pizzo ci sembra superfluo. Il ricordo di re Gioacchino è ancora vivo nelle popolazioni calabresi.

     A Belmonte Calabro è sepolto il quadrumviro Michele Bianchi. Il fedele della Rivoluzione Fascista fu anche un fedelissimo della sua regione. Esempio poco comune fra gli uomini politici.

     Strofa 17ᵃ. – Fra Tommaso il ferrigno non è altri che fra Tommaso Campanella di Stilo.

     Soveria Mannelli è nota, nei fasti dell’epopea garibaldina, per la resa di un corpo borbonico.

     Strofa 18ᵃ. – S. Bruno di Colonia ottenne, nel 1090, in dono, da Ruggero Normanno, un territorio boscoso nel Bruzio. Ivi, dopo la sua morte, sorse l’ancora esistente Certosa, detta di Serra San Bruno.

     Strofa 19ᵃ. – Nei pressi di Catanzaro Marina si possono visitare le grandiose rovine de La Roccelletta, una chiesa denominata anche  S. Maria La Roccella o Roccella del Vescovo di Squillace. Si è molto discusso dell’epoca della sua fondazione, che il Lenormant pone nei primi tempi del Cristianesimo. Altri storici dell’arte non condividono l’opinione di Lenormant, e fanno sorgere la costruzione nel VI, nel VII e perfino nell’XI secolo. Certo è che la Roccelletta, pur nel suo attuale stato, costituisce la più imponente costruzione sacra di Calabria, dopo la Cattedrale di Gerace.

     Strofe 20ᵃ - 21ᵃ. – La Civita e il Sant’Elia sono due colli nella campagna di Luzzi. Nel settembre, in Luzzi si celebra la festa della Madonna della Cava, a ricordo d’un’apparizione della Vergine a una pastorella precipitata in un burrone dei dintorni, dove venne costruito un tempietto agrestemente suggestivo. La pastorella, sollevata con un giunco, venne rimandata ai suoi, a segno della miracolosa visione, completamente guarita d’una precedente imperfezione agli arti inferiori.

     Il Monastero della Sambucina, sacro alla memoria dell’Abate Gioacchino, è stato recentemente illustrato in una pubblicazione del Prof. Giuseppe Marchese, notevole per la parte documentaria. Esso era la Casa Madre dell’Ordine Cistercense nel Regno.

     La notte dal 14 al 15 agosto, in occasione della festività dell’Assunzione di M.V., i sentieri che menano al Monastero, sono percorsi da allegre brigate, in viaggio per la sacra celebrazione con fiaccole e strumenti musicali.

     Strofa 27ᵃ. – Nell’estremo Bruzio Spartaco trovò rifugio contro gli eserciti di Crasso.

     Strofa 28ᵃ. – Pomponio Leto, figlio naturale d’un Sanseverino, nacque ad Amendolara.

     Strofa 29ᵃ. – Su Marco Berardi scrisse un poemetto l’acrese Nicola Romano, il traduttore della Cristiade del Vida.

     Strofa 30ᵃ. – S. Nilo e S. Francesco di Paola non hanno bisogno di speciale presentazione.

     Acri, detta l’Atene delle Calabrie, è terra ferace di poeti, da Vincenzo Padula a Vincenzo Julia, a Filippo Greco, ecc.

     Strofe 32ᵃ -33ᵃ. – Si allude all’origine del nome Italia e ai templi di Roma, per la cui costruzione fu adoperato il legno di Calabria. Vuole la tradizione che gli angeli cantassero un amen durante una messa natalizia di Gregorio VII.

Strofe 35ᵃ -36ᵃ. – La Calabria fu l’ultima terra italiana su cui ebbe dominio l’Imperatore d’Oriente, del diritto di Roma erede ben più legittimo, se anche più inetto ed esoso, dei Carli e degli Ottoni.

     A Melito Salvo e a Favazzina sbarcarono nel 1860 Garibaldi e Cosenz, messaggeri delle nuove fortune d’Italia.

     Strofa 40ᵃ. – La Fossiata è una contrada boscosissima della Sila.

     Strofe 46ᵃ -47ᵃ. – Ecco la traduzione quasi letterale del canto per coloro cui riuscisse alquanto ostico: Son Calabrese, Calabrese sono, - sono rinomato per tutto il regno: - chi vuol da me canzoni gliene do – d’amore, gelosia, partenza e sdegno. – Dinanzi alle altre città (città per genti, popolazioni) non mi confondo, - tutte le cose faccio con impegno: - venga pure al mio cospetto l’intero mondo, - saprò mantenere alto l’onore di Calabria.

     Strofa 50ᵃ - Carmela Borelli, la madre popolana che, colta in Aspromonte dalla tormenta, si distese sui figlioletti, salvandoli dalla morte con l’estremo calore delle sue povere membra intorpidite, è assurta già a simbolo del cuore delle madri calabresi e italiane. Ad essa, con pubblica sottoscrizione, è stato eretto un ricordo sul luogo del sacrificio.

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