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GERARDO COPPA - VERSI

ANGOSCIA

C’è un uomo sull’erto pendio

che stringe con mani convulse

uno sterpo

sull’orrido abisso.

Dall’alto

un occhio lo guarda,

pacato, impassibile, fisso.

Sei tu,

Iddio?

 

               Tira un po’ avanti anima mia.

               Ancora. Ancora un poco,

               sino all’estremo della lunga…  via…

               Ma, nel gioco tremendo,

               sappi piangere sempre, sorridendo.

FIDIA

 

Nume, m’ascolta: se dai tuoi vermigli

cieli in terra ti trassi a rimirare

questa aulente di palmiti sul mare

Ellade tua dai vigorosi figli;

 

se il tremor dell’Olimpo all’accennare

dei sovrani immortali sopracigli

ben rinnovò nei ceruli bardigli

l’anima che sostò sul limitare;

 

m’ascolta, Nume, e al prego mio clemente

accedi, e un segno al tuo gradir mi sveli

si che la terra all’opera s’inchini.

 

Tacque lo statuario, e all’ardente

volo un ascia spezzò gli inni argentini

roggia una nube veleggiò pei cieli.

TI PORTERO’ TANTE ROSE

 

Tu mi dicesti partendo:

Ti porterò tante rose…

Sbocciano or esse pompose…

ma da te invano le attendo.

 

                    Chiuse il destino la bocca

                    Dell’aulitosa promessa,

                    irrigidì l’indefessa

                    mano, nel dono più tocca.

 

Sulla collina fiorita

che al sole il volto t’ascose,

oggi io ti porto le rose

promesse a me dalla vita.

SERA D’OTTOBRE

 

Sotto i salici una curvi canzone

mormora il ruscelletto scintillante

scendendo alla minuscola tenzone

                         con erbe e piante.

 

Dalla montagna lievi e freschi venti:

passan dicendo l’Ave i contadini

col randello, menando innanzi lenti,

                                pigri i bovini.

LACRIMAE RERUM

 

Piangon le cose d’un pianto

tacito. Forse il passato?

Forse il presente? Chi sa?

E’ in pianger desolato

che fa nel core uno schianto

che lacrimar mi fa.

 

Si, piangon le cose, ma dite:

che altro dovrebbero fare

in questo giorno autunnale?

Sanguinano mille ferite

in cielo, in terra sul mare:

qual fosco dominio del male!

 

Ma io so perchè piangon le cose:

anch’esse avevan creduto

a pace, amicizia ed amor,

or sono dolorose

chè il loro sogno è finito,

e geme di strazio ogni cuor.

 

Oh! nel lavacro di pianto

tergi la faccio inquieta,

o tremebondo mortal,

che senza lume né canto,

senza saper la tua meta

attendi il giorno feral.

 

Dietro qual aureo miraggio,

dietro qual fulgida fola

t’affanni in vano desir?

E’ troppo pallido il raggio

che la tua marcia consola,

verso un promesso avvenir.

 

 

Si, è semplice la storia:

noi siamo cose piangenti

i pianti di tutte l’età

e ci drappeggia la gloria

dei suoi broccati splendenti,

d’un manto di vanità.

 

Si, mi ricordo: piangevo

ieri sul Gange e l’Illisso

di Brama e di Giove al piè,

e poi stanotte piangevo

ai piedi del Crocifisso

chiedevo la pace per me.

 

Oggi, si sa, tetro il nulla

c’incombe: che piangere devo?

Piango il mio pianto su me:

ho immaginato una brulla

tomba per mio sollievo

ed io le gemo al piè.

 

Ieri piangevo, oggi piango,

e domani, domani che fare?

L’anima luce del fango

gronda lacrime amare;

Ma quando finirà? 

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Piangon le cose d’un pianto

tacito. Forse il passato?

Forse il presente? Chi sa?

E’ un pianger desolato

che fa nel core uno schianto,

che lacrimar fa.

SILA

 

Immensa, perduta su mistica terra montana

s’eleva una selva di pini

                                           lontana.

 

La luce serena, gloriosa del sole che volge,

i rami e i cespugli selvaggi

                                      ravvolge;

 

Già fu che i tronchi dei pini divelti e poi cavi

rendean all’Impero di Roma

                                          le navi,

 

che andavan lontano, munitr di rostri e di fari

per nuove e perenni conquiste

                                           sui mari.

 

Or l’acqua,  all’Italia redenta da tante sventure,

risorta più bella a fortune

                                     sicure,

 

compressa nei laghi ritersi ed estesi

                                      produce

 

possente la forza che dona

                                         la luce.

 

O salve, mia bella nativa boscaglia latina,

di tutte le italiche selve

                                         regina.

 

Accogli, maestosa di degna, immutabile fama

il dolce saluto di un figlio

                                         che t’ama!

CALABRIA

 

A mio Zio Luigi Campise

Ardito Lanciafiamme

nato il 1887 morto il 1968

 

Salve Calabria mia, terra d’amuri

chi ti ripuosi sutt’u cielu biellu;

tutte ndurniate de virdi e de juri

su’ le muntagne e ‘u sule e quatrariellu!

 

Tu fusti sempri abbannunata e sula,

‘ntra lu silenziu tua de paravisu,

sulu, sulillu l’acilluzzu vula,

gudiennu di li juri lu surrisu.

 

Lu picuraru sona la sampugna,

li piecuri pasciennu a ‘ra muntagna

e canta ‘ra guagliuna ‘na rampugna:

è ‘nu luntan’amuri chi si lagna!

 

Lu zappaturu si ricogli stancu

la sira, doppu aviri fatigatu,

vasa ri figli, chi ci dau ‘nu vancu,

ed illu sicci assetta, cunsulatu.

 

‘Na vecchiarella filannu, filannu

cunta ‘nu cuntu biellu ari niputi,

la rumanzella di lu Saccupannu

e chilli stannu quieti, quieti e muti.

 

Pua ‘ntra la notti, quannu tutt’è citu,

l’anticu pinu allu vientu chi passa,

cunta la storia di lu biellu situ.

Lu vientu senti e ‘nu prufumu lassa!

Ricorda di francisi ‘u grann’abusu,

De Spagna, De Sicilia e Re Borbune,

che di li rre ‘un foze ‘u cchiù schifusu

e ‘u calavrise ‘un foze picurune!

 

‘U vientu torna e rispunniennu dice:

<<Mo, ‘na vittoria bella Italia aspetta,

d’u Cielu ‘u Signure benedice,

Calavrisi, la manu a ‘ra schuppetta!>>

 

Pua vinni l’ura ch’u dittu savvirau,

ca ppi li vuoschi cu’ forti sbavientu,

la prima cannunata rintrunau.

<<Ci simun uva, nun damu cuntientu,>>

 

<<partimu tutti, priestu, l’arma mmanu>>,

- una la vuci fozi pronta e ardita –

<<mò li viecchi mietissiru lu granu>>,

<<tutti i quatrari ppè l’Italia unita!>>

 

Scinniamu li turrieri di la Sila,

lu risu mmucca e lu curaggio ‘ncore,

cientu << u n’erano no, ch’eranu mila…

un mori no, chi ppè la Patria marì!>>

 

E… cantannu muriru a cientu a cientu,

supra li trempi Janchi du Trentinu,

‘nu salutu affidavanu a ru vientu,

de core ‘nu vasune a ru bambibu!

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