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LA QUESTIONE SILANA

 

     La Sila. Incantevole altipiano tra due mari: lo Jonio e il Tirreno. Ricca di azzurro e di verde, la Sila può magnificamente definirsi la Villa d’Europa. Un giorno sarà così anche se così non appare ora completamente. L’azzurro  dei suoi mari e del suo cielo, il verde dei suoi baschi, le distese delle sue valli, la bellezza delle sue cime più alte, Montescuro, Bottedonato, Pettinascura e Montenero; l’armonia che scaturisce dalla musica delle sue acque, degli infiniti ruscelli che la solcano, dei laghi che la rendono suggestiva e moderna; l’attrattiva del suo mantello bianco d’inverno, la varietà delle erbe e dei toni di queste; il canto del pastore bruzio e il lamento del vento nei giorni e nelle notti di tormenta e soprattutto la dolcezza del clima e la bucolica serenità del paesaggio, fanno della Sila la più concreta e la più potenziale ricchezza di tutta la penisola calabrese.

     Eppure la Sila ha avuto vicende storiche, che non avrebbe dovuto meritare e che noi ci accingiamo a raccontare. Chi pensasse che stiamo per esulare dal compito che ci siamo posti, vedrà alla fine che non è così.

     Lo Zurlo, del quale ci occuperemo ancora, essendo stato nel  1791 incaricato di verificare i confini della Sila, di riaffermare i diritti della Corona sul vasto territorio e di dirimere le liti pendenti, nella sua relazione al ministro Acton dice: “Le prime memorie che abbiamo del diritto dei nostri sovrani sulla regia Sila sono del tempo del duca Ruggero.

     Questo primcipe nel 1099, mentre stava nella città di Tropea, a petizione di Policoro, vescovo di Cerenzia, restauratore del monastero Calabro – Mariae di Altilia, nella Provincia ulteriore, confermò al Monastero medesimo un tenimento selvoso detto Sanduca, sito nella regia Sila e ne descrisse esattamente i confini”. ¹

     Il Duca Ruggero, quinto Fratello di Roberto il Guiscardo, fu il fondatore della dinastia normanna delle terre cismarine e trasmarine. Ruggero ricevette l’investitura del reame di Sicilia e del Ducato di Napoli da Papa Innocenzo II, nel 1130. Dopo ventiquattro anni di regno  morì a Palermo, lasciando incinta la sua terza moglie, Beatrice dalla quale nacque Costanza futura Imperatrice di Germania, perché sposa di Enrico VI e protettrice, come vedremo, dell’Abate Gioacchino da Fiore.

     “La seconda concessione – riprende lo Zurlo – è del XII secolo, sotto il regno di Tancredi. Si era stabilito allora in un luogo della Sila medesima, chiamato Fiore, il famoso Abate Gioacchino, fondatore dell’Ordine Florense ed aveva cominciato a fabbricare il Cenobio. Poiché queste montagne erano regie si ordinò di inquisire su di lui, come occupatore dei beni del fisco e furono mandati i birri per cacciarnelo . Dovette l’Abate portarsi in Palermo e supplicare il Re dal quale ottenne, non solo che non fosse molestato per la sede ivi stabilita, ma che gli dessero ancora 500 salme l’anno delle decime fiscali per alimentari i suoi monaci”.²

     Tancredi fu prima conte di Lecce e regnò sul trono di Sicilia dal 1190 al 1194, per la ragione che qui diremo. Dopo la morte di Guglielmo II, prima a pretendere  la corona di Sicilia fu Costanza. Ma i baroni siciliani e calabresi proclamavano Re, Tancredi,  figlio naturale di Ruggero; a questo succedette Guglielmo III e quando questi morì, Enrico VI rivendicò i diritti della moglie sul trono di Sicilia.

     Enrico regnò dal 1195 al 1197 e quando tornò in Germania lasciò il regno alla moglie che ebbe l’investitura da parte di Papa Innocenzo III, nel 1197, insieme al figlio Federico II.

     Riprende lo Zurlo: “Indi l’Imperatore Enrico VI, nel 1195 concedette al Monastero un vastissimo tenimento adiacente al medesimo circa quaranta miglia di circuito. Questa concessione non solo fu confermata dall’Imperatrice Costanza, ma enziandio dall’Imperatore Federico II e dalla Regina Giovanna”³

     Centocinquanta anni dopo le concessioni fatte al Monastero Florense dai Re normanni e svevi, l’angioino Re Roberto, il 24 Dicembre del 1333 emanò un editto, con cui proclamò solennemente che il territorio della Sila doveva  riconoscersi come antico demanio della Corona e, per la prima volta nella sua storia, ne delimitava i confini, enumerava i diritti appartenenti alla Corte. Infine, allo scopo di non confondere il demanio dello Stato con le terre donate all’Abate Gioacchino, teneva conto delle precedenti  concessioni fatte al Monastero Florense e dichiarava che la descrizione dei confini della regia Sila aveva lo scopo di evitare le usurpazioni e le occupazione del territorio silano.

     “Et quia nonnulli avara impellente cupidine ad occupandum praescriptum territorium seu tenimentum, vel eius partes et jura  ipsius”.⁴

     Ed ecco i confini della Sila: comincia dal fiume Arente, sale per S. Mauro e va al fiume Ponticelli, sale per questo fiume e va al fiume Muccone e, per lo stesso vallone di Muccone va al fiume Melissa e per esso ascende alla Pietra dello Altare, la quale è sopra Longobucco e va alla Ripa Rossa, quindi alla Serra dei Primerii e quindi al Vallone Diasaro, nei confini di Campana, scende per esso vallone, al fiume Laurenzana, sale per questo fiume alla Serra di Minera e poi va alla Serra d’Alessandrella e quindi al luogo detto Orto della Mente, poi va a S. Nicola di Parnice e per la via di S. Nicola di Laurenzana esce al Porto e discende al fiume Neto, quindi risale alla contrada dell’Uomo Morto, sopra Cotronei e discende al fiume Tacina, sale e ferisce la Pietra Scritta, sopra Policastro, quindi ferisce la Pietra Irta e va alla Pietra in Due ed esce alla Pietra del Diacono, ferisce la Serra di Morone e va alla Serra Paludara, onde va alla Serra di Piro e tocca la Serra di Bibulo”⁵

     Tra questi confini, dunque la Corte vantava i diritti solennemente proclamati dall’editto di Re Roberto e i cittadini di Cosenza e Casali esercitavano gli usi civili.

     “Infra quod  tenimentum Curia nostra habet jus  platheatici; herbagi, affidaturae animalium esterorum , glandacii, Jus picis, exceptis hominibus Cosentiae et Casalium suorum, qui ad nihil pro dicta solutione tenentur”⁶

     Inoltre erano di pertinenza regia le miniere di ferro della Sila e la decima delle entrate e delle rendite.

     E i due Monasteri basiliani di S, Adriano e del patire erano tenuti, per effetto del medesimo editto, a pagare ogni anno alla bagliva della Sila quattro bizantini d’oro e quattro capre per ogni mandria.

     Il plateatico era un dazio sulla merce che veniva venduta sul territorio silano, l’ “affidatura” degli animali era una tassa sugli animali che pascolavano nella Sila e la diffida consisteva in una penalità in caso si venisse colti a pascolare senza aver pagato la fida.

     I casali di Cosenza erano ventuno e tutti i suoi cittadini erano esenti dal pagare i sopradetti balzelli, per cui l’esercizio di quelle prestazioni con queste esenzioni, costituiva appunto un diritto comunemente chiamato “usi civili”.

     Intorno alla Sila però, fin dal secolo XI, si stringeva sempre più il cerchio della pressione dei  Feudi che la circondavano. Gli Aragona feudatari di Montalto, i Sanseverino feudatari di Rende, Mendicino, Castrolibero, Cerisano, Carolei e Domanico; i Borghese a Longobucco e ancora il Barone  di Caccuri e di Cotronei,  il Principe di Cariati, il Barone di Rose avevano gran fame di terra della Sila, onde spesso e volentieri ne spostavano i confini nel suo interno.

     Secondo Zurlo, i diritti del fisco della Sila erano la bagliva, il diritto della pece e di aboratura, sui terreni di moggi 14.387.

     Il diritto proibitivo della pece fu abolito il 7 Febbraio del 1797.

     Come abbiamo visto la bagliva consisteva nella fida e diffida degli animali e inoltre nel diritto di passo  per gli stessi, nel giogatico o granetteria per ogni paio di buoi, nella fida l’accetta per il legname ad uso di fuoco e di opere di lavoro (travi, tavole, barili, sporte ecc….), nel giornale, ossia il frutto di ogni solo giorno per ogni mandria di vacche, pecore, o capre; nel terratico sul lino o sul germano (segala) che si seminava soprattutto nella zona detta “Germano”.

     Naturalmente la bagliva veniva data in fitto. Il penultimo concessionario fi Luigi Calvelli di Aprigliano, al quale il 24 aprile del 1805 venne rinnovato il contratto quadriennale per ducati annui 3.400, pagabili un terzo a fine Settembre e due terzi a fine Dicembre. L’ultimo fu Pasquale Romano, che l’ottenne il 29 Luglio 1809 per ducati 1.247,50, con offerta di decima, superando così la precedente asta del 25 Giugno 1809, nella quale era riuscito per ducati 1.225 Nicola Cortese, per persona nominanda e con cauzione di Stefano Vigna di Aprigliano.

     Le baglive furono istituiite dai Re normanni;  in origine i baglivi o baiuli altro non erano che magistrati con prerogative di giudicare cause minori e per le quali alla cittadinanza tornava difficile contestarle dinanzi al giudice residente in provincia. Durante il dominio angioino al baglivo spettava la vigilanza sui pesi e le misure e sulle competenze di dogana. Con l’andare del tempo sparì al baglivo ogni caratteristica di magistratura, ma gli rimase il nome. In quei tempi posteriori al dominio angioino i casali erano giurisdizionalmente divisi in diciotto baglive; San Giovanni in Fiore ne ebbe una al pari di Cosenza e di Scigliano. ⁷

     Riferite queste notizie, importanti per chi voglia capire qualcosa sulla intricata questione silana, non ci resta che tornare al diploma dell’imperatrice Costanza, con il quale Ella confermò al Monastero  Florense le concessioni fatte da Enrico VI, suo consorte, degli immobili fuori e dentro la Sila, aggiungendovi i tenimenti Calosubero e Buonolegno,  che erano fuori la Sila. Inoltre il diploma di Costanza esentava il Monastero di Gioacchino da ogni balzello per il pascolo degli animali in tutta la Calabria e dal plateatico e dal prestagio in tutto il Regno. Concedeva al Monastero  medesimo 50 Bizantini d’oro e quanto questo leggittimamente aveva acquistato e quanto in seguito andasse ad acquistare, nonché il medesimo Monastero, veniva preso sotto la protezione dell’Imperatrice.⁸

     Dunque, un’immensa ricchezza e grandi benefici e privilegi furono concessi al Monastero Florense, in tempi in cui trionfava oppressione ed usuraio il sistema feudale. Si spiega allora la grande  affluenza di contadini e coloni interno a questo Cenobio provenienti da ogni parte della Calabria.

     Già alla fine del 1700, S. Giovanni  in Fiore contava 10.000 abitanti. Ma dobbiamo ricordarci che il nostro compito non è quello di scrivere la storia del grosso centro silano.

     Per 281 anni dal tempo in cui il profetico Abate pensò di creare in Sila un fiorente ordine monastico fini all’Abate Evangelista ultimo Abate florense che si spense nel 1470, i bracciali e i coloni godettero all’ombra del Monastero di tutti i benefici di cui godeva il medesimo. Estinto l’ordine monastico con la morte dello Abate Evangelista, la Curia  Romana ci regala gli Abati commendatari.  L’appellativo, da se, spiega il ruolo di tali Abati. Le terre in concessione al Monastero, già quando sorgeva l’alba del nuovo evo, venivano affidate a titolo di baronia a questo o a quello ecclesiastico.

     Il primo della serie di questi Abati fu Ludovico d’Angelo. Ma dopo mezzo secolo circa, il Cenobio ex Florense riprende la sua vita monastica per opera dei Cistercensi.

     Tuttavia non sparisce la Commenda, sicché la serie degli Abati claustrali è distinta da quella degli Abati Commendatari. Egualmente la mensa monastica è separata da quella commendale, sono cioè distinte le due gestioni.

     Infatti lo Zurlo ci fa sapere che la mensa commendale possedeva le difese Agnara, Bellori, buonolegno, Campo di Manna, Cuturella, Difesa del Convento, Garga soprano e sottana, Pisani, Vallepiccola, nonché le terre comuni Ambolino, Battinieri, Crocefisso, Imperatore, Manca di Cravia, Marinella; Serra dell’Abate; Tassito e Pardici. La Mensa  monastica possedeva le difese Fraulicchio, Montagna Grande, Pineto, Pirania, S. Bernardo, Pollitrea e Vallone di Mele.⁹

     Crediamo di dover  spendere alcune parole intorno alle “difese” e alle terre comuni.

     Nella Sila badiale si riscontravano due qualità di terre: “difese” e terre corse, dette comuni. Lo Zurlo così definisce le terre corse: terre corse sono quelle nelle quali il jus arandi è proprio, ma l’erbaggio è comune; nella Badia di S. Giovanni in Fiore vi sono alcune terre in cui il Jus arandi è di un padrone e l’erbaggio è di un altro .E così definisce le “difese”: tutti i territori dei particolari nei quali appartiene al medesimo tanto il diritto di semina, quando quello di pascolo, diconsi difese⁹

     Il discorso ci porterebbe  molto lontano, se volessimo insistere su tutte le questioni secolari e controverse sorte sul territorio della Sila. Per ora basti ricordare che i dissidi su quel vasto demanio  avevano tre ragion d’essere: la prima scaturiva dalla ribellione e dai  risentimenti dei bracciali contro i defensanti, contro coloro, cioè che aprivano abusivamente difese sulla Sila; La seconda saltava fuori  dalla lotta degli  “usuari”, di coloro, cioè che avevano diritto agli usi civici contro le mene del baglivo e le sue esazioni indebite; la terza balzava dalle lotte delle cittadinanze “università”, contro le pressioni dei Feudi vicini, che con ogni mezzo tentavano la penetrazione nel territorio silano.

     Torniamo alla “difesa”, riteniamo che esse, tutte o quasi, sorgevano abusivamente sul territorio della Sila. La difesa altro non era, per sua natura, che il tentativo, spesso riuscito di negare ad altri da parte di un occupante, il diritto sancito dalle costituzioni del tempo, cioè gli usi civici.

     E invero, quasi tutti i decreti reali, come, per ricordare soltanto alcuni, l’Editto del Re Roberto, la lettera di Alfonso  I d’Aragona del 1450 e il Diploma del Duca Alfonso del 1473, ripetono il divieto che non si debba “fare prato o difesa nella Sila” e sentenziano che si “proibisce di fare difesa nella Sila. Si ordina di mantenersi i cittadini nell’esercizio degli usi civici e sii aboliscono le difese fatte in pregiudizio di essi”.¹⁰

     Per ritornare al nostro campito, quello che ci siamo posti allo inizio di questo lavoro, dobbiamo essere necessariamente sbrigativi, nei confronti della questione silana e meglio non possiamo farlo che citando ancora una volta lo Zurlo: “Tanti accessi di ministri e tanti ordini avevano prodotto una mola immensa ed interminabile di carte che si distruggevano tra loro.

La Sila era ormai ridotta ad un mistero inesplicabile ¹¹

     Tutto questo avveniva nel lontano 1792. Che sarà mai la Sila verso la metà del 1800?

     E’ cosa che vedremo, se  riusciremo a vederci chiaro.

 

 

 

 

 

 

¹ G.Zurlo, Relazione al Ministro Acton, Napoli 1852 prg.5.

² G. Zurlo, op. cit.,prg.9.

³ G. Zurlo, op. cit.,prg.9.

⁴ P.Barletta, Leggi e documenti sulla Sila di Calabria, Torino, Favalli, 1864: cfr. l’Editto di Re Roberto del 24 Dicembre1333, p.56.

⁵ P. Barletta, op. cit., p.55.

⁶ P. Barletta, op. cit., pp.55 e 56.

⁷ Anonimo La Sila di Calabria, Firenze, Le Monnier, 1866, pp.34 e segg.

⁸ P. Barletta, Leggi e documenti  sulla Sila di Calabria, op. cit.: cfr.Il diploma dell’Imperatrice Costanza, pp.13 e segg.

⁹ Anonimo La Sila di Calabria, op. cit., p. 78.

¹⁰ Anonimo – La Sila di Calabria op. cit., p.78

¹¹ G.Zurlo, Relazione ad Acton, op. cit., prg.110

 

TRATTO DAL LIBRO DI SALVATORE MELUSO

IL VOLTO DEL CORAGGIO

EDITRICE NUOVA ESPERIA - COSENZA

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