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Roberto Bevacqua - "Le Sfingi di LebehT"

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Un tempo, in un luogo di sapere tra montagne di libri impolverati, trovai di un borgo o villaggio che dir si voglia, il suo nome era Lebeht ed aveva qualcosa dei sette candelabri forgiati da profughi devoti all' arca dell' alleanza. 
Nel corso dei secoli questo piccolo villaggio crebbe, si inorgoglì e si espanse, cambiò ubicazione, si ampliò ancora e mutò nome. 
Divenne famoso per i suoi vini, per l'olio e i prodotti della terra ma altrettanto per l'intelligenza dei suoi uomini. 
Medici illustri, anatomici di fama, vescovi e cardinali, principi, notai e scienziati, dotti e saggi uomini dagli umili natali popolarono le sue strade. 
Crebbero le chiese, si eressero castelli e fortezze, biblioteche e palazzi decorosi, gli uomini e le donne, laboriosi come formiche, alzarono il capo e furono grati ai loro santi e beati e innalzarono conventi e monasteri la dove più impervio era l'approdo. 
Fiduciosi in Dio e in se stessi, orgogliosi della loro appartenenza al borgo antico, grati al destino che qui aveva condotto i loro padri, fieri dei loro figli e della loro storia. 
Ma i tempi cambiano e mutano i destini che avversi giocano con partite senza dadi, così la dove alligna il genio può nascere lo stolto, la dove crescono i più bei fiori attecchisce la gramigna. 
Pian piano qualcosa si spense, la fiducia venne meno e sembrò che Dio li avesse abbandonati. 
Il dubbio strisciò nelle loro menti, l'indolenza li avvolse in nebbie cupe, la fratellanza si allentò e sciami di dissenso accompagnarono le solide unioni di un tempo. 
I boschi atavici lentamente vennero dimenticati, i campi, un tempo rigogliosi, abbandonati a se stessi pian piano inaridirono, così gli sguardi si volsero altrove. L'ozio si sostituì alla lena, il crepuscolo all'oro del mattino. 
Mutarono i lavori e la fiducia negli uomini del borgo conobbe tempi tristi e grevi. 
Ventate di decadenza frustarono le case sonnecchianti nel buio del meriggio e su di esse si abbatterono tempeste senza tuoni né strati. 
I fiorenti commerci di un tempo ormai lontano, si inaridirono come fiumi in secca, le arti sapienzali e il sangue fiero ed orgoglioso placò la turbinosa irruenza per acquietarsi nell'indolente letargo della resa. 
Il vassallaggio crebbe verso gli uomini del Re, estranei esattori e spesso forestieri di nascita, il censo deputato al comando si estraniò dai destini del borgo e d il tramonto fu per loro già una dura conquista. 
Uomini a volte degni e a volte inetti sostarono senza grandi onori sugli scanni del Sedile di antica memoria, ed il fasto del passato divenne solo ricordo di pochi, leggenda e poi mito. 
Duchi onesti attorniati da corti rapaci e rapaci progenie di duchi tra corti giuste, prive di nerbo, si susseguirono tra i palazzi diruti del potere ancora in piedi a testimoniare l'orgoglio delle pietre e la tenacia delle fondamenta. 
Proprio in quel tempo, nell'ora più difficile di quel doloroso travaglio si comprese ciò che a tutti era palese da tempo, che il ritorno all'antico fasto era possibile se solo ancora una volta si fosse recuperata l'antica fiducia, la vetusta sapienza. 

L'orgoglio dell' appartenenza al borgo, alla storia degli avi, ai propri campi, ai campanili stretti tra le viuzze miste di odori familiari, la speranza nei figli, la fiducia negli uomini e nelle donne di LebehT. 
Tutto ciò si comprese e la fede tornò come allora. 
Scomparve la bruma intorno al borgo, volarono le cavallette dai campi arati a stento, si dissolsero travi e pagliuzze tra i vecchi amici e la ruggine tra le maglie dei vicinati si trasformò in rugiada che al ritorno del sole scivolò via per sempre. 
Tutto si fece chiaro e LebehT tornò a vivere. Nuovi germogli sbocciarono tra i campi, nuovi figli lustrarono l'antica patria, ed amori sinceri ripopolarono le vie dei quartieri e tra le valli e i declivi dei monti l'eco della rinascita annunciò che LebehT era tornata, che il faro della speranza era di nuovo acceso. 
La pace e la concordia tra le genti, la cieca certezza del valore dei propri figli era nuovamente con gli uomini del borgo, essi avevano creduto che ogni asperità, ogni debolezza può essere superata con l'unione e la speranza, non avevano ceduto al declino e all'arroganza, ne agli uomini del Re, alieni al loro destino e alle sorti di LebehT; 
avevano ripreso in mano ciò che Dio gli aveva donato e ciò che loro stessi avevano edificato. 

Roberto Bevacqua

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