Elvira D'Orrico - "Chiese del mio paese"
Tratto da:
"Il Veltro di Sambucina" Maggio-Giugno 2000
Chiese del mio paese, vi riconosco e vi distinguo, ad una ad una, dal suono delle campane, che ogni giorno invita i fedeli a varcare la Casa del Signore. Ahimè, non odo più i rintocchi festosi della Chiesa di San Michele Arcangelo, che mi svegliavano presto al mattino e mi incitavano alla preghiera!
Dove sei finita mia diletta Chiesa parrocchiale? non vedo che un cumulo di macerie, forse ti sei calata anche tu nella tomba insieme al tuo devoto parroco Don Umile Feraco? Caro e stimato don Umile, che persino negli ultimi giorni della tua malattia e della tua esistenza, ti accanivi a celebrare le fuzioni religiose in questa Chiesa per mantenere intatta la fede nei tuoi parrocchiani! Quanti ricordi mi assalgono legati alla mia parrocchia!
Mi rivedo ancor giovane varcare la soglia di questa Chiesa per educare i bambini alla fede religiosa in qualità di presidente dell'Azione Cattolica. Mi rivedo ancora salire le scale, colma di allegria nelle festività solenni della Pasqua e del Natale.
Mi rivedo, infine, lacrimante, seguire, sempre in questa Chiesa, il feretro, le salme benedette di mio padre e mia madre per il rito funebre e l 'ultimo commiato.
Risorgi dalle ceneri mia diletta Chiesa parrocchiale! Non permettere più che i tuoi devoti parrocchiani aspettino invano la benedizione pasquale delle case, come è consuetudine ogni anno e come si conviene ad ogni buon cristiano.
Mi giunge ancora chiaro e distinto il suono grave e solenne delle campane, proveniente dalla Chiesa di Santa Maria, da anni Madre delle Chiese.
Arcipretura, oggi non più, spogliata completamente del suo prestigio e della sua solennità, costretta a vedere celebrare le sue funzioni più importanti in maniera frettolosa, quasi incompleta, per adeguarsi alle altre Chiese.
La Domenica delle Palme si è vista deserta e abbandonata dai suoi fedeli, che sono corsi in massa nella Chiesa dell'Immacolata, che non riusciva a contenerli tutti.
Nonostante ciò, questa casa del Signore continua ad esistere per volontà di Dio, non può crollare, e non crollerà mai: quell'umile Sacerdote, Don Umile Plastina, umile di nome e di fatto, prima "Arciprete", ora, in apparenza semplice Prete, continua in silenzio a servire il Signore, pronto a svolgere la sua missione come se nulla fosse accaduto, anche se apparentemente privato del suo ruolo di Arciprete per volontà degli uomini e non certamente da Dio.
Vi saluto, Chiese del mio Paese, e vi incito, ancora una volta, a risorgere dalle ceneri, come è risorta la mia anima, la mia Fede religiosa, spesso sonnecchiante, intrisa di mille dubbi, ma sempre presente nel mio intimo di donna Cattolica e Cristiana.
Elvira D'Orrico
Chiesa Matrice Di Santa Maria
Elvira D'Orrico - “Non fiori ma opere di bene”
Tratto da:
"Il Veltro di Sambucina" Maggio-Giugno 2000
“Non fiori ma opere di bene” suggerisce la normativa religiosa che vuole indirizzare verso una fede più autentica, più vera, lontana dalle inutili pompe e dalle esteriorità, conforme ai principi della morale cristiana.
È vero, quei fiori e quei lumi, che vengono destinati ai nostri defunti, dopo il rito funebre vengono ammucchiati in un angolo del cimitero, dimenticati da tutti e destinati presto a diventare spazzatura, cosa inutile. La ragione ci suggerisce, quindi, di eliminarli e di destinare i nostri risparmi a fini più nobili. Si tratterebbe di andare alla ricerca dei fini più nobili, ma la nostra fede vacilla, pensando a tante iniziative filantropiche e al recente fallimento della “Missione Arcobaleno”, che ha visto disperdere i nostri risparmi, utilizzati per fini non certamente nobili.
Tralasciando queste considerazioni e pensando ancora una volta alla misera fine di quei fiori, abbandonati nel cimitero, mi viene spontaneo e naturale riflettere un po' anche sulla nostra breve esistenza terrena e sulla nostra destinazione futura: di fronte alla “fredda ragione”, che cosa diventeremo noi dopo la morte, se non un mucchio di spazzatura, destinato a concimare il terreno, se la “ragione del cuore”, mista ai principi cristiani, che ci inducono a sperare e credere in un avvenire migliore, non venissero ad alimentare, in ogni momento, la nostra fede? “La ragione del cuore” ci consente di credere che “quei fiori e quei lumi” non sono più, per noi, un’inutile pompa, ma sono invece, la testimonianza di qualcosa che non muore, simboli imperituri del nostro affetto e della nostra riconoscenza verso i cari defunti: genitori, parenti ed amici, che tanto hanno fatto per noi quando erano in vita e che meritano, certamente anche molto di più di un fascio di fiori e della celebrazione di una messa, a suffragio delle loro anime.
Dobbiamo essere eternamente grati a quel grande poeta, Ugo Foscolo, che nel suo Carme “I Sepolcri” esaltava il culto dei morti, rivolto a favorire quella “corrispondenza di amorosi sensi”, che lega il vivo al morto e fa sì che si perpetui nel vivo l’illusione che anche dopo morto non morirà interamente, se qualcosa di lui resterà sulla terra, mantenuta in vita, appunto, dall’affetto e dalle cure amorevoli dei suoi cari.
Il Foscolo scriveva: “Sol chi non lascia eredità di affetti poca gioia ha dell’urna”. Può definirsi veramente morto soltanto chi è solo e chi nella proprio esistenza non ha saputo vivere una vita meritevole, guadagnandosi la stima e l’affetto in eterno. “L’eredità di affetti”, di cui parlava il Foscolo, ci aiuta, in un certo senso, a vincere le barriere della morte, dandoci quella parvenza di immortalità, che può diventare per noi una vera certezza, se sorretta dalla fede cristiana e da quella ragione de cuore, che io continuo ad esaltare e ritengo la più giusta, la più vera perché nasce dal nostro intimo: non può, quindi, ingannarci e mentirci in alcun modo.
Elvira D’Orrico
Elvira D'Orrico - “Frammenti di ricordi della mia infanzia e dei mutamenti avvenuti attraverso il tempo nel mio paese”
Ho avuto modo di dimostrare in qualche mio scritto precedente, vergato con semplicità e pubblicato sul giornale "Il Veltro di Sambucina", l'amore e l'attaccamento a Luzzi, mio paese natale, dal quale mi sono dovuta a malincuore distaccare negli anni più spensierati e più belli della mia infazia per seguire altrove la mia famiglia. Mio padre, laureato in lettere e filosofia, preferì dedicarsi all'insegnamento nelle scuole elementari ed ottenne in quei tempi il trasferimento in una scuola del casertano. Io ero allora una bambina di appena otto anni, frequentavo la terza elementare, dovetti abbandonare le scuole del mio paese, la mia maestra, i miei compagni, gli amici del rione "Conche" in cui abitavo per proseguire gli studi in un paese lontano e sconosciuto. Furono anni difficili quelli che seguirono per la soluzione del problema dell'ambientazione, per le diverse abitudini di vita e per le inflessioni dialettali che distinguevano il mio parlare calabrese dal casertano o napoletano: ricordo che i miei nuovi compagni mi canzonavano ogni volta che aprivo bocca per parlare. Passarono gli anni e piano piano mi abituai alla nuova vita, mi creai nuovi interessi, feci nuove amicizie, intrapresi gli studi superiori nel casertano e quelli magistrali nella città di Cosenza, dove mio padre ottenne, otto anni dopo, il trasferimento. Ritornai, infine, con la mia famiglia e dopo aver conseguito il diploma magistrale, a Luzzi, il mio paese natìo che in tutti quegli anni non ero mai riuscita a dimenticare. Quanta delusione nel ripercorrere dopo tanti anni le vie del mio paese! Cercavo con gli occhi e con la mente le cose e i volti che mi erano stati familiari, ma, ahimè, non riuscivo a vederli! Tutto era cambiato, trasformato dagli uomini e dalla furia del tempo: la vecchia fontana delle "Conche", dove da piccola andavo ad attingere l'acqua con la "cucuma" ,non c'era più, ma restava in me il ricordo incancellabile, che si presentò subito alla mia mente, di quel lontano giorno in cui caddi malamente e i cocci della "cucuma" si conficcarono nel mio naso; ritornai a casa piangente e dolorante, sporca di sangue, ma quel dolore che allora sembrava così grande, per me così piccola, cessò subito tra le braccia e le carezze di mamma, al contrario di tanti dolori dell'età adulta che restano spesso conficcati nella mente e nel cuore di ognuno di noi, incancellabili. Inoltrandomi per le vie del mio paese non ritrovai più la vecchia "Savùca", quel luogo ampio e suggestivo, popolato da alberi d'acacia. Il profumo dell'acacia, evocato dai miei pensieri e dai miei desideri, mi giunse quasi alle narici, ma fu solo la suggestione del momento; quel luogo ampio e suggestivo, che era servito per i nostri giochi da bambini, era stato sostituito da abitazioni, monumenti e tante altre cose che non mi riportavano al mio passato. Continuando ancora il cammino per la via di San Francesco, sollevai gli occhi sulla vecchia area di 'Zu Natali' , quel luogo scosceso popolato da tanti alberi d'ulivo ed altre piante selvatiche, un tempo quasi un dirupo, sul quale da bambini solevamo arrampicarci per raccogliere more ed altri frutti selvatici, quasi non esisteva più: in parte il terreno era stato spianato, in parte occupato dalle case del "Rione Popolare". Imboccai la stradicciola che portava al "Canale Vecchio", anch'esso inesistente: un tempo, l'acqua di quel canale scorrendo sul terreno lasciava una vasta pozzanghera melmosa, che noi bambini a piedi nudi eravamo soliti attraversare senza timore per raggiungere il fiume, da soli o in compagnia delle nostre mamme, le quali si recavano al fiume per lavare i panni e mentre questi si asciugavano al sole, noi giocavamo a costruire casette e castelli con la rena e i ciottoli del fiume. Ritornavamo a casa verso sera, stanchi, ma spensierati e felici, per consumare in famiglia quella cena frugale che in tempi difficili di guerra potevamo permetterci. I ricordi del passato e della mia infazia mi tornano alla mente anche e soprattutto oggi, nell'età adulta e matura, in cui il presente sembra per me perdere ogni giorno di più attrattiva e l'avvenire diventa sempre più oscuro ed incerto. Qualche volta, ritornando di sera a percorrere il viale di San Francesco che porta alla chiesa, lo vedo oggi popolato per la maggior parte da giovani; le loro risate prorompenti, le discussioni fatte ad alta voce, il rumore assordante dei motorini e delle automobili mi colpiscono l'orecchio e mi procurano un senso di fastidio, mi riportano ancora indietro nel tempo: ripenso ancora con nostalgia al silenzio e alla quiete di quelle incantevoli serate estive, colme di lucciole e di stelle, in cui il silenzio veniva, di tanto in tanto, interrotto dal verso di una cicala o dai grilli. In quelle serate, con la mia famiglia, con amici e parenti, facevamo lunghe passeggiate che avevano come meta il sagrato della chiesa. Giunti sul posto, gli adulti si sedevano sui muretti che circondavano la chiesa discutendo delle loro cose, noi bambini giocavamo a rincorrerci, a nascondino e quando eravamo stanchi ed esausti si sedevamo anche noi per raccontarci "le romanzelle", le storielle che le nostre nonne o mamme ci raccontavano d'inverno accanto al caminetto, visto che la televisione non era ancora entrata nelle nostre case. Altri ricordi della mia infanzia sono legati alla mia antica abitazione nel rione "Conche": la casa era situata accanto alla vecchia caserma dei carabinieri ed era di proprietà del Professor "Ciccio Bruno" presa in affitto dalla mia famiglia; c'era una lunga scalinata esterna e un ballatoio, prima di raggiungere l'entrata; all'interno ricordo il balcone e le finestre, situati di fronte alla chiesa di San Francesco. Pensando al paesaggio che si offriva ogni giorno alla mia vista , nuove sensazioni e ricordi si affacciano alla mia mente: ripenso a quelle rigide giornate invernali, in cui non si poteva uscire di casa perchè la neve scendeva spessa e copiosa sul mio paese; nevicava per ore ed ore della giornata. Mi rivedo dietro i vetri appannati della mia antica abitazione a contemplare incantata lo stupendo spettacolo della natura: la neve scendeva lentamente, ma fitta, copriva di un bianco immacolato tutte le brutture, gli alberi scheletriti dai rigori invernali, le case annerite e abbruttite dal tempo, il terreno, a tratti bruciacchiato dagli incendi e dall'arsura estiva, le sterpaglie ecc... Quel candore, quel bianco immacolato, quasi si confondeva con il candore e l'innocenza della mia anima di bambina. Tutto si trasformava davanti ai miei occhi, si creava intorno a me un'atmosfera quasi irreale, quello che mi affascinava e mi teneva per delle ore inchiodata alla finestra era la statua di San Francesco, dapprima scura, marrone, pian piano diventava tutta bianca: la barba, il mantello, il bastone e così via. Quella figura austera di vecchio canuto, ammantata di mistero mi incuteva rispetto e timore insieme ad un vago senso di religiosità appena percepibile, per la mia ancora tenera età. Questi ed altri, sono frammenti di ricordi di un'infanzia interrotta, spezzata dalle circostanze e dalle esigenze della vita che mi portarono da piccola lontana dal mio paese; rimangono custoditi gelosamente nella mia mente e nel cuore, ma non mi hanno certo aiutato a vivere: ha influito in qualche modo negativamente sulla mia vita e sulle mie scelte successive il fatto di essere tornata adulta nel mio paese. Di fatto, mi sono sentita sempre più isolata, non sono riuscita più a stabilire rapporti di amicizia con le persone e con gli amici d'un tempo, che ho ritrovato adulti, cresciuti come me in un ambiente diverso, ciascuno con la propria vita, i propri interessi diversi dai miei, l'unica cosa che ci univa erano quei frammenti di ricordi, che ci riportavano indietro nel tempo, le rare volte che ci incontravamo per puro caso per le vie del paese. Lo confesso, neppure oggi, dopo tanti anni e dopo tante esperienze, trascorsi nel mio paese, sono riuscita ad organizzare bene la mia vita: Luzzi, paese mio natio, che pur amo, mi sembra a volte un paese sconosciuto e persino ostile.
Elvira D'Orrico
da "Il Veltro di Sambucina" / Febbraio 2001
Foto del rione "Conche" di Luzzi degli anni '50