Filippo Giorno - NEI PICCOLI PAESI SI SOFFOCA. MA IL FUTURO POTREBBE ESSERE LI
I paesi opprimono. Lo sapete tutti. E’ quasi impossibile per un ragazzo trovare la sua strada in un minuscolo centro. Quattro case, un paio di bar, niente da combinare.
Raggiungi i venti, fai le valigie e vai fuori a studiare o a lavorare. Costruisci casa e famiglia lontano dal tuo paesello. Ti viene nostalgia, e torni a Pasqua e Natale. Ma non è cambiato nulla da quando te ne sei andato. E te ne lagni. Ma questa decadenza è anche colpa tua. Colpa nostra.
«Cosa ci sto a fare qui? Non c’è lavoro, non ci sono servizi. Non c’è futuro». Tutti bravi ad accusare. A lamentarsi. Senza lottare per cambiare le cose. Vediamo la gente fuggire dal nostro paese, e come reagiamo? Andandocene anche noi. A malincuore.
Non c’è fiducia. E’ questo il problema principale.
Nei paesi si vive male, questo è ovvio. Visto da fuori, sembra quasi un mondo a parte. Un ambiente comunitario, in cui tutti sono amici e vivono tranquilli. Paesaggi mozzafiato e niente ansie. Puoi respirare, distendere i nervi. Non come in qualche frenetica città. Purtroppo, non è esattamente così.
Esatto. Perché questa è una tranquillità che uccide. Che non ti permette di andare avanti con la tua vita. Gli unici che ci rimangono sono gli anziani. Sono radicati qui, nel paese in cui sono nati e cresciuti. La loro casa, il loro bar, la loro panchina. Ma non dobbiamo pensare che gli over 70 non si accorgano della decadenza. Anzi, la avvertono più di tutti. Unici padroni di queste pietre ormai mute.
Molti si rinchiudono in casa, privandosi di quel poco di vita ancora là fuori. I vecchi di cui nessuno parla. Quelle persone che quando escono sono spaesate, fuori posto. Camminano frettolose, sguardo basso, occhi tristi e agitati. In un paese che non è più il loro, così vuoto. Un paese morto che non riesce a dare niente. Ne diventano la rappresentazione vivente.
Purtroppo, va a finire che qualcuno si lasci morire. Morire di tristezza e solitudine, e farla passare per una cosa normale. «Era vecchio, che doveva fare?». Agghiacciante. Il paese che un tempo li nutriva, ora li ammazza. Tutto occultato, nessuna protesta. Ma come è possibile che degli esseri umani si spengano in questo modo? Che si arrendano, e si carichino di tutta l’angoscia che trasudano piazze e strade? Piazze e strade fredde, grigie. Deserte. Le stesse strade che un tempo brulicavano di vita.
I giovani scappano, i vecchi si consumano, impotenti. Il problema va estirpato alla radice. Ma come? Con una ripresa economica, che alla fine è l’anticamera di quella sociale.
Basterebbe davvero poco per migliorare la situazione. Non solo per preservare queste vite così fragili, ma anche per stimolarne di più giovani. Novità. Aziende. Strutture. Restauri. Posti di lavoro. Ma anche luoghi dove incontrarsi e stare insieme. Che non siano il tavolino di un bar o una slot machine. In città ci sono, quindi perché non spostare queste piccole realtà anche nei paesi, dove ce n’è molto più bisogno?
Il problema è lo spopolamento. L’emigrazione è causa e conseguenza del degrado dei paesi. Unica soluzione possibile, fermarla. Puntare su dei progetti che rimettano in sesto proprio le strutture fondamentali. Riparare strade, riaprire attività e scuole. Nuove garanzie. Un motivo valido per non abbandonare la propria terra. Per riprendere ad amarla. Ma questo è il minimo. Non dobbiamo puntare solo sulla manutenzione. Bisogna farli crescere, questi paesi. Hanno un enorme potenziale.
Un potenziale naturale, scontato. E per questo ignorato e sottovalutato.
Le loro risorse primarie sono appunto le varie coltivazioni (viti, oliveti, frutteti). Quindi, perché non operare in tal senso, incentivando le aziende agricole e l’artigianato? Inoltre, ogni paese ha il proprio corredo di storia e tradizioni, di paesaggi e prodotti locali. Per non parlare di borghi e chiese. In ognuna di queste si nascondono opere d’arte. Si deve promuoverle. Il turismo non va sottovalutato. E’ il perno centrale.
Ci sono ostacoli, come al solito. Mancano i fondi. Ma questa è una mezza verità.
E’ vero, purtroppo lo Stato italiano non si rende conto del valore di questi piccoli agglomerati. Continua a puntare solo sulle grandi metropoli. Preferisce dimenticarsi dei paesi, in nome di innovazione e globalizzazione. Ma guardiamoci un po’ intorno. Cos’è l’Italia, se non un enorme complesso di paeselli immersi nella natura? Io ci credo nei paesi, e sono convinto che presto ci sarà una loro rivalutazione. I fondi si troveranno.
Contrada TORRE MALIZIA del Comune di LUZZI
Le prime notizie relative a insediamenti in contrada Torre Malizia risalgono alla terza decade del secolo scorso quando i fratelli Malizia (Nicola, Carmine, Luigi e Antonio) si insediarono in questa zona costruendo le prime abitazioni: i Turri, probabilmente così definite perché erano case su due livelli. Già allora la gente del luogo iniziò ad identificare la zona come ‘i Turri di Malizia’, nome che poi fu trasformato in Torre Malizia. Ancora isolata dal Paese e raggiungibile solo attraverso sentieri, negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, Torre Malizia era terra di contadini che trascorrevano gran parte della loro vita in mezzo alla terra. Una particolarità di questa contrada sembrava essere quella di poter fare compiacenti incontri con avvenenti signorine del luogo che allietavano le serate degli stanchi agricoltori. Nel 1953 iniziarono i lavori di realizzazione della strada statale Luzzi-Castellara, con fondi della Cassa per il Mezzogiorno. La fine dell’isolamento favorì la nascita di nuove attività. In zona Savette, Michele Pisciotta possedeva una casa rurale dove la famiglia si trasferiva nei mesi estivi dal paese. Michele era figlio di Luigi Pisciotta, Commissario Prefettizio che amministrò Luzzi per alcuni anni dopo la caduta del fascismo: In questa casa nacque nel 1931 il figlio di Michele, Luigi Pisciotta, noto compositore e maestro di musica. Negli anni ’60 la signora Emma Malizia, moglie di Luigi Pisciotta, con l’aiuto di Cesare Dima, aprì un maglificio. Il marchio “Creazioni Emma” divenne subito sinonimo di qualità e i capi prodotti a Torre Malizia erano venduti in tutta la Regione. Ragazze provenienti dal paese e dalle contrade vicine si alternavano nei vari turni di lavoro. Nel periodo di maggiore attività l’azienda impiegò fino a 20 lavoratrici ma le difficoltà nel coniugare la vita dei campi con le esigenze aziendale, da parte delle giovani ragazze, portarono alla chiusura dopo circa 10 anni di attività. Verso il 1960 Antonio Rende acquistò alcune proprietà dalla famiglia Pisciotta e aprì il primo negozio di generi alimentari della zona. Successivamente vendette l’attività ad Alessandro Magliari (Lisandru) ed emigrò in America. Alessandro aprì un bar che ancora oggi (gestione diversa) rimane punto d’incontro per tutta la comunità di Torre Malizia. Negli anni ’60 anche Giuseppe Mauro, detto ‘u Russu, si trasferì a T. M. dove aprì un generi alimentari e una cantina dove venivano serviti piatti della tradizione locale. U Russu dedicò la sua vita con grande passione alla cucina, passione che dopo la sua morte venne ereditata dai suoi figli che ancora oggi gestiscono una delle migliori pizzerie del paese. Il prof. Luigi Pisciotta, sin da giovane, appassionato di musica, trascorre gli anni della pensione nella casa natale di T.M. insieme alla moglie Emma. Qui ha fondato un complesso di 25 fisarmonicisti apprezzato in tutta la Regione. Sempre a T.M. il Pisciotta si è dedicato con passione alla preparazione di tanti giovani alla cultura musicale. Ubicata su uno sperone roccioso, si può visitare un’antica edicola votiva dedicata alla Madonna delle Grazie, restaurata negli anni ’90 dall’Associazione Insieme per Luzzi. La maiolica in ceramica componibile, con la rappresentazione della Vergine Maria, inserita all’interno della cappella votiva, è opera del maestro Franco Federico. Ancora oggi si possono osservare lungo una stradina impervia le antiche Turri dalle quali questa contrada ha avuto origine. Con esse si è conservata un’immagine del nostro passato con i ricordi, i suoni e i profumi di quel tempo lontano che ancora oggi vive nella nostra memoria.
(da una ricerca di Arnieri Emilio)
AMANUENSI DELL’ABBAZIA DELLA SAMBUCINA
"Fa freddo nello scriptorium,
il pollice mi duole.
Lascio questa scrittura,
non so per chi,
non so più intorno a che cosa:
stat rosa pristina nomine,
nomina nuda tenemus". (Il nome della Rosa, Umberto Eco)
La giornata tipo del religioso sambucinese era molto particolare, ricca di orazioni, ma tanto tempo era dedicato alle attività emanuensi, secondo un antico insegnamento tramandato dai padri del deserto sinaitico ed egiziano in base al quale solo il lavoro e la preghiera si rifuggivano le tentazioni. La principale attività, dicevamo, era quella trascrizione dei Codex ai quali si dedicava il monaco emanuense. Questo monaco è uno dei protagonisti meno conosciuti della storia monastica: lui non gode, come i suoi confratelli, della sala comune del convento e approfitta degli spazi bianchi sul colophon dei manoscritti, per scrivervi lamentandosi che ha freddo, che l’ora del pasto è ancora lontana, che l’inchiostro gela nel calamaio. Durante la permanenza in Sambucina il suo compito era stato notevolmente facilitato, poiché si era abbandonato il rotolo di papiro e si era adottato il codex, il libro insomma, di cui ancora oggi giriamo le pagine, che allora erano in pergamena. Oltre a favorire la meditazione il codex rende molto più facile ricopiare un testo e collezionarne parecchi esemplari alla volta. Ma, detto questo, il lavoro dell’amanuense era molto stressante. Anche quando erano in tanti nella stessa ala, era necessario che osservassero obbligatoriamente il silenzio per meglio concentrarsi. Un’intera ala del vasto complesso abbaziale venne utilizzata per svolgere questa delicata mansione di copiatura, molto probabilmente era quella posta ad est per sfruttare al meglio la luce del sole. Il materiale maggiormente utilizzato era la pelle di capra o di pecora che gli stessi monaci con una tecnica a loro congeniale trattavano stirandola ed essiccandola lentamente al sole.Con un intero montone si ricavavano 4 strati. La pelle, lungamente lavorata, diventava molto fine e dura. La pergamena dopo il bagno e la pulitura iniziale, doveva essere stesa su un telaio, raschiata, battuta, passata con la pietra pomice e infine ripartita in fogli. Essi venivano in seguito cuciti e assemblati formando voluminosi libri. La copertina era costituita da cuoio molto spesso e finemente lavorato, a volte con bordature e fregi in ferro. Altri monaci più accorti e precisi, si occupavano della trascrizione. Il carattere di scrittura che veniva usato è quello che oggi definiamo gotico (così chiamato perché i Goti, popolo germanico, quando decisero di aderire al Cristianesimo intorno al 430 d.c. dovettero darsi anche una lingua che non possedevano), molto complesso e laborioso. Il libro, era sistemato su un pulpito e l’emanuense utilizzava una penna ricavata da un pezzo di canna “fesso” all’estremità; in altri monasteri si usavano piume d’uccello e si scriveva o sulle ginocchia, o su una panca o su un tavolo. Preliminarmente con l’aiuto di un righello di legno tracciavano a punta secca linee e tratti verticali per determinare i margini e le colonne e suddividevano la scrittura. All’amanuense vero e proprio dobbiamo aggiungere altri lavoratori solitari: correttori, rubricatori, pittori, miniatori, rilegatori. Un mestiere faticoso, stando alle parole di uno di essi che ci da diretta testimonianza: “…appanna la vista, fa diventare gobbi, incava il petto e il ventre, danneggia i reni. Tutto il corpo viene messo a dura prova, perciò o lettore, sii delicato e non mettere le dita sulle lettere”. Alcuni monaci, si erano dunque specializzati ad es. nelle rifiniture dei disegni con fregi in polvere di oro e di argento, usando decorativi svolazzi. I colori dei disegni erano tratti da alcuni minerali oppure da piante naturali che era facile reperire intorno all’Abbazia (il giallo ad es. era ricavato dalla ginestra molto rigogliosa nei pressi del santuario). Si riuscivano a copiare solo sei fogli al giorno, e per copiare tutto il Vecchio ed il Nuovo Testamento non bastava un solo anno. Si realizzavano non più di 40 volumi nell’intera esistenza. La Sambucina riforniva inoltre tutte le biblioteche dell’Italia Meridionale, non solo altri monasteri appartenenti al medesimo ordine o di altri ordini, ma anche di ricchi signori ai quali si faceva dono di questi libri in seguito a qualche elargizione. Nel 1152 la decorazione del libro venne regolamentata: solo le iniziali vengono dipinte di un unico colore e senza alcuna figura ornamentale, ma nel corso dei secoli il metodo venne allentato, abbandonandosi a decorazioni più “mondane”. La rilegatura e la decorazione dei piatti di copertina erano spesso veri e propri lavori di oreficeria ad incastro, con borchia di pietre preziose, che finivano per apparentare il libro ad un reliquario. L’attività del copista era dunque a pieno titolo un’autentica forma di ascesi, ne più ne meno che la preghiera e il digiuno, un reale rimedio per tenere a freno le passioni e imbrigliare l’immaginazione grazie all’attenzione degli occhi e alla tensione delle dita che essa richiedeva. A che pensavano, che immaginavano questi amanuensi quando ricopiavano un testo pagano che talvolta ritenevano menzognero, talvolta licenzioso o indecente? Si chiede lo storico Michel Rouche. Cominciamo col dire che essi non operarono mai una qualche forma di selezione o di censura: la loro fedeltà al testo era assoluta, pochi di loro hanno lasciato le loro impressioni. Un libro costava parecchio caro, dato che per ogni copia delle opere di Cicerone o di Seneca era necessario un intero gregge. “Che fine ha fatto la biblioteca della Sambucina?” Si chiedeva Giuseppe Marchese. L’intera biblioteca consisteva in circa 4000 volumi e sembra che in seguito ad alcune sue indagini una parte sia stata trasferita presso il Convento dei Cappuccini di Luzzi insieme anche ad altri arredi sacri, un’altra parte presso la Curia di Bisignano, altri volumi presso l’Abbazia della Matina e tantissimi altri presso la Santa Sede. Perduti o andati lontano dunque i manoscritti raccolti da Luca Campano, da Pietro Scarsili, da Domenico Flimure e tanti altri dai conventi benedettini. Solo due manoscritti si conservavano nella biblioteca di Luzzi. privata dei Vivacqua.
Varie fonti di ricerca …………..Filippo Giorno
L'Ecclesia spiritualis.
Nel Liber concordiae Novi et Veteris Testamenti, Gioacchino precisa il suo punto di vista: modifica la visione della storia trasmessa da Agostino alla teologia medievale. La teoria agostiniana proponeva un’interpretazione cristocentrica della storia. Il monaco florense la rifiuta a favore di quella trinitaria che implica una trasformazione del ruolo della gerarchia ecclesiastica e della funzione dei sacramenti e della Bibbia. La nuova chiesa che Gioacchino attende è l’Ecclesia spiritualis. Le dottrine di Gioacchino da Fiore vennero condannate in quello stesso Concilio Lateranense del 1215 che stabilì l'impossibilità di creare nuovi ordini monastici e impose l'obbligo della clausura alle donne che abbracciavano la vita religiosa. Dopo la morte furono attribuiti a Gioacchino molti commenti esegetici, profezie e vaticini. Fra questi è piuttosto noto il Tractatus super Hyeremiam, risalente al 1230 circa e proveniente da ambienti florensi o francescani. La dottrina di Gioacchino diede vita ad un vasto movimento denominato gioachimismo, che ebbe seguito soprattutto fra i francescani spirituali, specialmente Gerardo di Borgo San Donnino, Pier di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale che si ispirarono all’abate per delineare i caratteri della “terza età” nella storia della salvezza caratterizzata dalla piena e rigorosa attuazione della regola francescana in opposizione con la chiesa corrotta. Altri temi propriamente gioachimiti quello del papa angelico e dell’imperatore degli ultimi tempi, che ha il ruolo di unire il mondo. (E.C.)
Super quattuor Evangelia, Torino 1960
"Salvare i suoli agricoli". L'appello di Filippo Giorno
Scritto da Roberto Galasso Pubblicato in Provincia Cronaca Letto 1074 volte
Dall’architetto Filippo Giorno riceviamo e pubblichiamo una riflessione sulla necessità di salvare i suoli agricoli.
“Il suolo, se non muore a colpi di fertilizzanti e pesticidi, sparisce senza un’attenta pianificazione urbanistica: se la sua tutela non entrerà presto a far parte incisivamente dell’agenda politica delle Amministrazioni sarà ora che ci sia una mobilitazione popolare in sua difesa.
È uno scempio senza fine, che pregiudica la qualità delle nostre vite in termini ecologici e anche gastronomici. Sì, gastronomici, perché ne va anche del nostro cibo, della sua qualità, della sua varietà e della possibilità di poterlo comprare senza che provenga da un
altro continente, con tutti gli enormi problemi che ne conseguono.
L’ambiente è un diritto garantito dalla nostra Costituzione e non può esserci tutela dell’ambiente senza tutela del mondo rurale, sia per quanto riguarda la sua produttività, sia per quanto riguarda la sua bellezza. Gli enti locali fanno poco, anzi proprio loro vedono nell’edificabilità dei terreni agricoli e dei suoli liberi una via per fare quadrare i propri bilanci. La politica di Palazzo non se ne cura, e se pare normale da parte di chi governa e ha costruito le sue fortune proprio sull’edilizia, il silenzio sulla tutela dei terreni agricoli diventa sempre più assordante. Il problema infatti è più che mai politico, oltre che etico e culturale. Mancano delle politiche di territorio, come per esempio si dovrebbe per legge riutilizzare aree già consumate e dimesse piuttosto che invadere nuovi campi, nuovo suolo, nuova agricoltura, paesaggi. Bisogna agire con interventi di naturalizzazione, contro il dissesto idrogeologico, piantando nuovo verde. Tutto questo si può fare senza rinunciare all’occupazione in edilizia, e certo senza aumentare il numero dei senzatetto. È solo questione di organizzazione, di razionalizzazione, e soprattutto di toccare il problema, che è gravissimo.
La Regione Calabria, con il QTRP approvato il 01 agosto 2016, ha invitato gli Enti Territoriali a provvedere con urgenza agli adempimenti di adeguamento entro due anni a questa normativa tesa a migliorare la situazione ma i Comuni latitano in merito. Per migliorare i paesaggi e l’immagine urbana si favorisca con incentivi la distruzione di obbrobri costruiti soprattutto negli anni ’60, e ’70, già fatiscenti e degradanti per riedificarci sopra qualcosa di bello, che si realizzino recuperi di quelle aree urbane fortemente degradate, marginali, residuali e il lavoro per i costruttori non mancherebbe di certo. Che si tutelino per legge le aree rurali come fossero Parchi Nazionali, questa è la via nobile da seguire. Valorizzare i suoli agricoli perchè sono una risorsa insostituibile, pulita, bella e produttiva. Sono il luogo che ci fa respirare, che riempie gli occhi, che ci da mangiare e che custodisce la nostra memoria, la nostra identità. Continuare a distruggerli, dopo tutto lo scempio che è già stato fatto, non è da Paese civile e un Paese civile dovrebbe predisporre i giusti strumenti urbanistici di tutela.
Il QUADRO TERRITORIALE REGIONALE PAESAGGISTICO REGIONALE (QTRP) non è “ritornare alla zappa” ma è la zappa che si muove da sola.
LA RISORSA DEL FIUME CRATI
Mi sento di sottolineare come la scommessa sulla quale bisogna lavorare è che la cultura dell’ambiente, cioè la sua difesa e promozione attiva sia il cardine del territorio luzzese e non solo. Il Crati e le sue anse per il nostro paese e per l’intero comprensorio, è un elemento naturale strategico dalle alte potenzialità, in grado di poter rovesciare lo stato di degrado nel quale si trova l’intero comparto territoriale che si snoda lungo le sue rive. Chi vede il Crati, oggi, è difficile che possa apprezzarlo ma con un’attenta osservazione si può pensare in maniera diversa, migliore. Vedere il Crati non più come fiume degradato, non come un corso d’acqua di bassa qualità o come presenza residuale di Luzzi ma come risorsa che può diventare protagonista essa stessa, “salvare la città stessa”. Questo è un lavoro che può essere detto più letterario che tecnico ma stiamo attenti che sovente è proprio il romanzo ad essere più vicino alla realtà futura di quello che è la semplice proiezione statistica della realtà presente. Non bisogna rassicurarsi dalle idee dei progettisti e dagli ambientalisti ma soprattutto dalle decisioni degli Amministratori, dagli operatori tutti, affinchè il pensiero si spinga oltre, al di la della semplice deduzione tecnica, al di la del lato verso un terreno di riflessione più lontana, forse più vera se sganciata dalle facili parole dei comizi elettorali. La riqualificazione del Crati non può che soffermarsi sulle reali possibilità di realizzare un parco fluviale che diventi una sorta di pulsazione cardiaca, vitale per una vasta area che inglobi tutto il comprensorio. In tal senso si può esplorare la possibilità di riqualificare il Crati con eventi e episodi che si collocherebbero in una rigenerata fascia verde lungo le proprie anse, luoghi di sosta per dolci e piacevoli momenti di lettura: rilassarsi mentre ci si trova abbracciati dalla natura con lo scorrere dell’acqua. Mi spingo ad anteporre su tutto il tema del paesaggio, del rinnovamento di questo nostro paesaggio di “vallata” che ha nel Crati il suo momento culminante. Oggi è un brutto scarico di rifiuti ma può diventare la chiave da cui muovere un progetto, una visione, un’idea da mettere all’attenzione da chi fa muovere i fondi economici e non gli applausi di rito elettorale.
CHIESA DELL’ANGELO DELL’APOCALISSE
Disegni eseguiti a china e colorati a pastello per una chiesa con annessi corpi di fabbrica a canonica e servizi di accoglienza per un quartiere di montagna nell’Altopiano della Sila..
L’idea è sorta dopo che gli sciagurati interventi scempio presso l’Abbazia Cistercense della Sambucina hanno fatto in modo di coniare una nuova tipologia di edificio di culto: CHIESA DI MONTAGNA. Il posizionamento della presente Chiesa tiene conto di un accostamento contestuale del tutto inventato e non corrispondente a nessuna realtà catastale e reale. San Vincenzo Ferrer aspetterà paziente per una sua precisa collocazione, rigorosamente in montagna, dove fa la neve. L’edificio di culto cerca con forza di non prefigurare un ambiente gerarchicamente ideato, tale che il sacerdote “governi” sulla comunità dei credenti, semplici spettatori della funzione liturgica, proponendo uno spazio pensato per il popolo di Dio che celebra, insieme al sacerdote, il rito sacro. L’edificio chiesa infatti si può considerare un luogo con una vocazione particolare dove si svolgono i riti di una comunità cristiana usati per comunicare con il Signore e per stabilire una relazione tra i fedeli; la chiesa ha un doppio aspetto: è il luogo d’incontro fra uomini e con Dio. Questo suo doppio aspetto deve essere sempre riconoscibile e lo spazio sacro deve rendere l’idea della comunità in sintonia con Dio; empatia riconoscibile anche dall’equilibrio fra lo spazio interno ed esterno. Sulla base delle indicazioni per una mirata diversificazione nei prospetti, dettata dalla volontà di identificare chiaramente le varie funzioni dell'edificio chiesa, viene realizzata ricorrendo ad un diverso trattamento superficiale, individuando nel rivestimento in lastre di travertino funzioni ben precise diversificate da tinteggiature superficiali a colori tenui. Precise scelte riguardo la scelta dei materiali, valutando la loro biocompatibilità per salvaguardare la qualità dell’aria interna, per ottenere una buona traspirabilità dell’involucro edilizio (pareti perimetrali e copertura), per migliorare l’isolamento termico in generale, il comfort acustico, per ottenere un risparmio energetico, migliorando anche i costi di gestione e allo stesso tempo ottimizzando il comfort climatico degli ambienti, migliorando il comfort visivo e la qualità della luce, consentendo di influire positivamente sul benessere psicofisico con l’appropriato uso del colore e della luce. L’idea progettuale si basa principalmente sulla sostenibilità ambientale, sulla razionalizzazione delle risorse ed il controllo della qualità ambientale, funzionale e tecnologica dell’intervento, nell’ambito degli obiettivi legati alla qualità morfologica, alla qualità fruitiva ed in considerazione delle istanze della comunità parrocchiale presente sul territorio. “Il rapporto tra chiesa e quartiere ha valore qualificante rispetto ad un ambiente urbano non di rado anonimo, che acquista fisionomia (e spesso anche denominazione) tramite questa presenza, capace di orientare e organizzare gli spazi esterni circostanti ed essere segno dell’istanza divina in mezzo agli uomini.” ( La progettazione di nuove chiese, Commissione Episcopale per la Liturgia, nota pastorale del
18-02-1993).
Arch. Filippo Giorno