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Storia degli Emanuensi Sambucinesi
da una ricerca di Filippo Giorno

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     La giornata tipo del religioso sambucinese era molto particolare, ricca di orazioni, ma tanto tempo era dedicato alle attività emanuensi, secondo un antico insegnamento tramandato dai padri del deserto sinaitico ed egiziano in base al quale solo il lavoro e la preghiera si rifuggivano le tentazioni. La principale attività, dicevamo, era quella trascrizione dei Codex ai quali si dedicava il monaco emanuense. Questo monaco è uno dei protagonisti meno conosciuti della storia monastica: lui non gode, come i suoi confratelli, della sala comune del convento e approfitta degli spazi bianchi sul colophon dei manoscritti, per scrivervi lamentandosi che ha freddo, che l’ora del pasto è ancora lontana, che l’inchiostro gela nel calamaio. Durante la permanenza in Sambucina il suo compito era stato notevolmente facilitato, poiché si era abbandonato il rotolo di papiro e si era adottato il codex, il libro insomma, di cui ancora oggi giriamo le pagine, che allora erano in pergamena. Oltre a favorire la meditazione il codex rende molto più facile ricopiare un testo e collezionarne parecchi esemplari alla volta. Ma, detto questo, il lavoro dell’amanuense era molto stressante. Anche quando erano in tanti nella stessa ala, era necessario che osservassero obbligatoriamente il silenzio per meglio concentrarsi. Un’intera ala del vasto complesso abbaziale venne utilizzata per svolgere questa delicata mansione di copiatura, molto probabilmente era quella posta ad est per sfruttare al meglio la luce del sole. Il materiale maggiormente utilizzato era la pelle di capra o di pecora che gli stessi monaci con una tecnica a loro congeniale trattavano stirandola ed essiccandola lentamente al sole.Con un intero montone si ricavavano 4 strati. La pelle, lungamente lavorata, diventava molto fine e dura. La pergamena dopo il bagno e la pulitura iniziale, doveva essere stesa su un telaio, raschiata, battuta, passata con la pietra pomice e infine ripartita in fogli. Essi venivano in seguito cuciti e assemblati formando voluminosi  libri. La copertina era costituita da cuoio molto spesso e finemente lavorato, a volte con bordature e fregi in ferro. Altri monaci più accorti e precisi, si occupavano della trascrizione. Il carattere di scrittura che veniva usato è quello che oggi definiamo gotico (così chiamato perché i Goti, popolo germanico, quando decisero di aderire al Cristianesimo intorno al 430 d.c. dovettero darsi anche una lingua che non possedevano), molto complesso e laborioso. Il libro, era sistemato su un pulpito e l’emanuense utilizzava una penna ricavata da un pezzo di canna “fesso” all’estremità; in altri monasteri si usavano piume d’uccello e si scriveva o sulle ginocchia, o su una panca o su un tavolo. Preliminarmente con l’aiuto di un righello di legno tracciavano a punta secca linee e tratti verticali per determinare i margini e le colonne e suddividevano la scrittura. All’amanuense vero e proprio dobbiamo aggiungere altri lavoratori solitari: correttori, rubricatori, pittori, miniatori, rilegatori. Un mestiere faticoso, stando alle parole di uno di essi che ci da diretta testimonianza: “…appanna la vista, fa diventare gobbi, incava il petto e il ventre, danneggia i reni. Tutto il corpo viene messo a dura prova, perciò o lettore, sii delicato e non mettere le dita sulle lettere”. Alcuni monaci, si erano dunque specializzati ad es. nelle rifiniture dei disegni con fregi  in polvere di oro e di argento, usando decorativi svolazzi. I colori dei disegni erano tratti da alcuni minerali oppure da piante naturali che era facile reperire intorno all’Abbazia (il giallo ad es. era ricavato dalla ginestra molto rigogliosa nei pressi del santuario). Si riuscivano a copiare solo sei fogli al giorno, e per copiare tutto il Vecchio ed il Nuovo Testamento non bastava un solo anno. Si realizzavano non più di 40 volumi nell’intera esistenza. La Sambucina riforniva inoltre tutte le biblioteche dell’Italia Meridionale, non solo altri monasteri appartenenti al medesimo ordine o di altri ordini, ma anche di ricchi signori ai quali si faceva dono di questi libri in seguito a qualche elargizione. Nel 1152 la decorazione del libro venne regolamentata: solo le iniziali vengono dipinte di un unico colore e senza alcuna figura ornamentale, ma nel corso dei secoli il metodo venne allentato, abbandonandosi a decorazioni più “mondane”. La rilegatura e la decorazione dei piatti di copertina erano spesso veri  e propri lavori di oreficeria ad incastro, con borchia di pietre preziose, che finivano per apparentare il libro ad un reliquario.

L’attività del copista era dunque a pieno titolo un’autentica forma di ascesi, ne più ne meno che la preghiera e il digiuno, un reale rimedio per tenere a freno le passioni e imbrigliare l’immaginazione grazie all’attenzione degli occhi e alla tensione delle dita che essa richiedeva. A che pensavano, che immaginavano questi amanuensi quando ricopiavano un testo pagano che talvolta ritenevano menzognero, talvolta licenzioso o indecente? Si chiede lo storico Michel Rouche. Cominciamo col dire che essi non operarono mai una qualche forma di selezione o di censura: la loro fedeltà al testo era assoluta, pochi di loro hanno lasciato le loro impressioni. Un libro costava parecchio caro, dato che per ogni copia delle opere di Cicerone o di Seneca era necessario un intero gregge. “Che fine ha fatto la biblioteca della Sambucina?” Si chiedeva Giuseppe Marchese. L’intera biblioteca consisteva in circa 4000 volumi e sembra che in seguito ad alcune sue indagini una parte sia stata trasferita presso il Convento dei Cappuccini di Luzzi insieme anche ad altri arredi sacri, un’altra parte presso la Curia di Bisignano, altri volumi presso l’Abbazia della Matina e tantissimi altri presso la Santa Sede. Perduti o andati lontano dunque i manoscritti raccolti da Luca Campano, da Pietro Scarsili, da Domenico Flimure e tanti altri dai conventi benedettini. Solo due manoscritti si conservavano nella biblioteca di Luzzi. privata dei Vivacqua.

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Il portale della Sambucina

Opera del Maestro Francesco Ferro

Tratto da: CALABRIA NOI NEL MONDO - Anno III/2017-n°2

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