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Francesco Dima - "Il pullman degli studenti"
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Il tempo segnava la seconda metà degli anni sessanta…e noi eravamo tanti…giovincelli luzzesi, pieni di vigoria fisica e colmi di speranze, nonché amanti della musica dei Beatles, Bob  Dylan o di quella più impegnata e colta di Fabrizio De Andrè.

Ed eravamo soliti affollare il Bar degli Sportivi di Dino Altomare per giocare a carte o a bigliardino, oppure ci portavamo nei pressi della chiesa di San Francesco per correre dietro un pallone sulla strada asfaltata o sul minuscolo sagrato della chiesa stessa.

Non posso dimenticare i miei compagni di allora…il gigante buono Pietro Malizia, il calcolatore Enzo Bevacqua, lo scorbutico Emilio Pepe, il pacato Aldo Caloiero, Franco Ciardullo e la sua disarmante semplicità, l’ilare Pietro Smurra (giocava quasi sempre in porta) e infine il giocoliere Franco Piluso con i suoi virtuosismi calcistici.

Il nostro tempo libero in genere era questo… ossia quel poco che riuscivamo a rubare agli impegni scolastici.

Difatti quasi tutti la mattina, abbastanza sul presto, si raggiungeva il mitico “Pietrarizzo” dove un’autobus, il cosiddetto pulman degli studenti, ci caricava per poter così raggiungere i vari Istituti nel capoluogo cosentino.

Per me la giornata aveva inizio verso le ore sei…allorquando la voce di mia madre puntualmente fungeva da sveglia…ed io saltavo subito dal letto per prepararmi, mentre mio fratello Giulio Cesare restava ancora a poltrire. Purtroppo in un baleno l’orologio del campanile di San Giuseppe scandiva inesorabilmente le ore sei e mezza e bisognava fare in fretta perché il tempo stringeva e magari poteva essere importante guadagnare un posto sull’autobus. E mio fratello si attardava ancora, tentando di scimmiottare mia madre in modo da poterle scucire altre cinquanta lire per le sigarette. A quel punto non si poteva assolutamente perdere ulteriore tempo e così via verso quell’autobus, magistralmente condotto dall’affidabilità del sereno, paterno e per niente invadente Pasquale Scarpelli oppure dalla cortesia e dalla pur sempre disponibilità di un Evaristo Pepe, simpatico ed amico, nonché titolare delle autolinee  stesse, con la determinante  collaborazione cordiale dei docili Scipione Zuccarelli e Rosario Cortese.

Ricordo che tra i primissimi a prendere posto, rigorosamente in pole position, c’erano  mio zio Bernardo e Francesco Sena, dipendenti del comune di Cosenza, forse gli unici privilegiati e autorizzati in un certo senso a viaggiare con gli studenti.

La partenza molto spesso era rimandata di qualche minuto per il sistematico ritardo di questo o quello studente o per la flemmatica andatura, già sudamericana, del logorroico Ciccio Caloiero regolarmente in doppio petto.

Ebbene si partiva… accompagnati dalle note romantiche  di “Sognando la California” dei Dik Dik, o dalla voce  sensuale di Patty Pravo con la sua “Bambola”, o dalle melodie di “It’s five o’clock”  degli Aphrodites Child. Ed erano le studentesse dei primi posti, gentili e competenti, a scegliere i quarantacinque giri più gettonati e inserirli nell’apposito mangiadischi, mentre tra noialtri, occupanti la parte centrale  o quella terminale dell’autobus stesso, chi continuava a dormire, chi commentava le imprese calcistiche di Gianni Rivera e Pierino Prati, e chi perfino riusciva a ripassare con il libro aperto una pagina di storia o un argomento di filosofia.             

E come in un salotto lì stavano seduti l’enigmatico Aldo D’Amico, le diligenti e composte Eva ed Enza Altomare, il volenteroso Aldo Federico, la tranquilla Maria Molinaro, l’intraprendente Nunzio Sammarro, l’ancora fresco dei successi canori Mario Molinaro, la frizzante Maria D’Ambrosio, l’educata Concettina Pepe, l’oxfordiano Giuseppe D’Orrico, il docile Peppino Ciardullo, la garbata Franca Rago, il distaccato Franco Rende, la vulcanica Maria Pepe, la caparbia Letizia Stabile, l’onnipresente Maria Altomare. Più in là stazionava il nutrito gruppo dell’Ina Case  capitanato  dal magnifico quartetto dei fratelli Perri, ossia Silvio, Aldo, Gigino e Sarina, con al seguito i moderati Lino e Maria Pappaianni, l’aitante Gerardo Altomare, il mansueto Orazio Piluso, detto Bernardo, con la silenziosa sorella Adelina, la riflessiva Silvana Scarpelli con la fida e discreta  Maria Leone, la solare Maria Ciardullo, il poliedrico Sergio Tarsitano illuminato dall’intelligenza propria e da quella delle sue sorelle Sandra e Annamaria, il sarcastico Domenico La Marca e la vitalissima sorella Cecilia, il simpatico e testardamente polemico Luigi Altomare, il vispo, ordinato e sempre pronto Dino Sena, e non ultimo il vichingo Peppino D’Amico alias “Pistola”.

C’erano anche Mario ed Elio Borchetta con Pino Sammarro e Franco D’Acri quali rappresentanti la pacata,  riverente e per nulla rumorosa intellighenzia del Pedale, e inoltre l’eclettico Pino D’Acri, l’imperscrutabile Salvatore Corchiola seguito come un’ombra da un meditabondo Silvio Sena, il determinato e concreto Eugenio D’Amico, il morigerato Franco Incutto, la positiva Maria Scalercio, l’affidabile Tonino Lopetrone, il discreto Eugenio D’Acri, il tenebroso Giuseppe Falbo di Torre Malizia.

Ubiquitari, invece, saltellavano di qua e di là i vari Raffaele Ruffino distintamente elegante in cravatta, l’ancora  dormiente ma già perspicace Ciccio Dima, il frenetico mio fratello Giulio Cesare, il melodioso e intonato Nino Montalto, l’hollywoodiano Eugenio D’Acri, il romantico Tonino De Bonis, il sornione Pierino Durante, l’intellettuale per eccellenza Umile Altomare, il serioso Romeo Dima, sua altezza Raffaelino Altomare e la primaverile sorella Maria, il promettente Gerardo Sena, il vanitoso Carmine Palermo, il composto Norberto Gidorino, il defilato Maurizio D’Amico.

Infine, ricordo l’azzurro chiaro e immenso degli occhi di Sarina Lirangi, la giovinezza prorompente di Elvira Dima, l’elegante classicità di Ada Lento, la dolce gentilezza di Concettina Molinaro, il marcato bon ton delle sorelle Lidia e Dina Polillo,  il gioviale sorriso dell’atletica Maria Cosenza, la decisa e fortemente voluta praticità di Concettina Gardi, il delicato charme di Sara Montalto, lo sguardo penetrante di Rosa Cosenza, l’evidente vivacità di Valerio Guccione accompagnato dai più tranquilli fratelli Mario e Duilio, la dilagante simpatia umoristica di Pino Ripoli ed Enzo De Carlo.

La musica, nel frattempo, accompagnava i timori o gli entusiasmi per la imminente mattinata scolastica e le sue interrogazioni oppure la spensierata decisione di marinare la scuola e fare una passeggiata per le vie alla moda di Cosenza o godersi il fresco nella Villa Vecchia.

E in codesta atmosfera si raggiungeva già Settimo di Montalto, dopo che l’autobus, intanto, aveva imbarcato le speranze e le ansie giornaliere di altri studenti abitanti l’hinterland luzzese.

Ormai in prossimità della periferia cosentina la luce del giorno ci svegliava definitivamente, mentre quel mangiadischi bollente sfumava le ultime note di “Un’ora sola ti vorrei” dei Camaleonti.

La stazione delle autolinee ci accoglieva con il tepore  di sempre: il profumo delle brioches e l’aroma dei cappuccini ancora caldi!

A questo punto ognuno per la sua strada…con Pietro Malizia, il mio caro compagno di banco e di studio, ci incamminavamo lungo Corso Mazzini, quindi il ponte sul fiume Crati, tutto Corso Telesio per raggiungere infine  l’austero  Liceo  Classico.

Al termine delle lezioni facevamo a ritroso il cammino del mattino…Facce stanche…assonnate…anche affamate…girovagavamo  come fantasmi con la febbre  alla ricerca della corsia numero undici, dove alle ore quattordici e un quarto un’autobus  avrebbe raccolto la maggior parte di noi per riportarci in quel di Luzzi.

Spesso salivamo su una vettura, capitanata dal sanguigno Raffaele e dal taciturno don Giuseppe, percorrendo la strada alternativa alla statale 19… era molto colorata e colorita, scricchiolante e dondolante alla maniera di quelle che si incontrano per le strade sterrate  del Messico o del Sud America… e la ricordo con un pizzico di malinconia a differenza degli attuali mezzi di trasporto, dove tutti ci incontriamo e ci ignoriamo.

Finalmente si tornava a casa un po’ stanchi, ma bisognava pur fare i compiti e così l’indomani si ricominciava allo stesso modo, come ieri e come sempre.

Mamma mia, in quanti eravamo!

Sicuramente ne avrò dimenticato tanti…ma, vi prego, non me ne volete.

Avrei certamente preferito riportare  uno per uno i loro nomi, ma sinceramente non li ricordo tutti (nel frattempo sono trascorsi già oltre quarant’anni).

E, perciò, per le eventuali mie dimenticanze peto venia a coloro i quali non ho citato; anzi colgo l’occasione, se me lo concederanno, di salutarli affettuosamente uno per uno, anche se magari durante le festività natalizie ci incontriamo per le vie del nostro paese e non ci riconosciamo più: superiamo gli impacci di vario genere e salutiamoci, perbacco!

Difatti ormai sono trascorsi tanti anni…una vita, come si suol dire!

Ognuno di noi ha seguito il proprio destino…e noi che vi abbiamo abbandonato vi siamo rimasti vicini e  saldamente attaccati ai sentimenti puliti e senza tempo di allora.

Francesco Dima "Il mio quartiere"

Correva l’anno 1953 ed io ero un bambino di appena quattro anni… abitavo nel rione Timpone in una modesta e umile unica stanza… mio papà era un mastro-muratore e mia mamma accudiva la nidiata di noialtri figli… e si viveva in maniera semplice e senza navigare nell’oro… certo non avevamo niente e proprio in quel niente erano nascoste la dignità e l’onestà, che appartengono alla povera gente e, forse, senza domani… poi un giorno papà ci comunica che avremmo cambiato abitazione e anche zona e che saremmo andati ad abitare una casetta più grande, ma solo di due stanze, in un luogo a noi fino allora sconosciuto… di certo la curiosità e anche l’entusiasmo della novità, tipici dell’età infantile, contribuirono a farci accettare di buon grado l’imminente cambiamento, ma la preoccupazione e l’ansia di dover lasciare e ricominciare tutto daccapo ci attanagliava non poco.

Ebbene, venne il giorno del definitivo trasferimento… e ci accorgemmo subito di trovarci in una zona ben esposta al sole e perciò la casetta si presentava più calda a differenza del freddo provato prima. Il luogo veniva chiamato “Petra Chiatta” appunto perché ai bordi della stradina principale era ubicato un masso di grosse dimensioni e piatto… veniva usato come sedile a mo’ di poltrona, anche se non possedeva la comodità e la morbidezza di quest’ultima. Esso era situato in una posizione strategica, ragion per cui era un centro di aggregazione e dove le donne del quartiere si radunavano, specialmente durante il periodo invernale, per scaldarsi al sole pur continuando a lavorare con la lana e i ferri o a rammentare e nel contempo, le più audaci, non disdegnavano per nulla fare gossip. Certo, erano altri tempi… a differenza di oggi, allora le porte di casa si aprivano e non si chiudevano… non serpeggiavano la paura e il timore di essere derubati… esisteva la legge del rispetto e del buon convivere. Oggi la pietra non c’è più, come d’altronde sono spariti tanti reperti di un passato recente e remoto sotto l’egida di una modernità senza scrupoli e senza senso.

Il suddetto quartiere confina a nord con quello detto “della piazza”, a est con “santa venere suttana”, a ovest con “u muntu” e a sud con il torrente, ormai senza più acqua, Ilice e con le mitiche Pigne. Esso, come l’intero centro storico luzzese dalla tipica struttura medievale, offre uno spettacolo quanto mai pittoresco e suggestivo con sensazioni particolari, dove il tempo sembra essersi fermato. E’ costituito da vecchie, qualcuna oggi restaurata, case in pietra in una quiete di antiche atmosfere paesane fra vicoli tortuosi, sui quali si affacciano casette dipinte a calce con le caratteristiche scale esterne, balconi, balconcini, archi e archetti fra meandri e dedali di viuzze che insieme sfociano sulla stradina principale di Via Monte Santo.

Ad eccezione del palazzo Longobucco, già nobiliare, tutte le altre case sono basse e attaccate l’una con l’altra ad uno dei costoni di questo magnifico centro storico luzzese, ahimè troppo abbandonato, tremendamente degradato e che non ha nulla da invidiare alle ormai più celebri medine di Fez o di Marrakech in Marocco.

C’era pure una fontana… essa costituiva un punto d’incontro e chissà quanti amori saranno sbocciati proprio lì. Più giù c’era l’orto con gli alberi di arancio e di fico… lo coltivava bene, ordinato e con maestria, l’esile Maria Giuseppa. Nei pressi era ubicato un basso, oggi lo chiameremmo con eleganza piedi-a-terre, dove aveva la residenza luzzese la determinata e laboriosissima Maria “di Pellegrino”, in perenne e spasmodica attesa del suo Camillo emigrato in Brasile e non più tornato. Trenta metri sopra la fontana e su uno spiazzo c’era l’ingresso di una stalla che ospitava, con il suo odore acre e pungente, l’asino e il mulo di zio Nicola. E in uno dei bassi dei suddetti vicoletti si trovava “a funtanella”, tipica cantina paesana magistralmente gestita dalla famiglia Amoroso, dove da una botte cicciotta e senza tempo sgorgava un vino rosso paragonato al nettare degli dei. Spesso mia madre, come le altre mamme, non ancora attrezzate e fornite della tecnologia che da lì a poco avrebbe invaso ogni abitazione, scendeva verso l’Ilice per lavare i panni in quell’acqua chiara e crudamente fredda. E l’atmosfera quotidiana, oltre agli odori familiari dei piatti tipici, spesso veniva inebriata dal profumo del pane che in continuazione veniva asportato dal forno situato più giù.

Noi figli eravamo ancora tutti piccoli e naturalmente sentivamo il bisogno di giocare, ma le stradine erano impervie… però, nonostante tutto, a poco a poco ci integrammo nella quotidianità dell’ambiente… si cominciava in tal modo a fare amicizia con altri bambini. E mio fratello Bruno era un grazioso bambino con un destino fatalmente segnato e in seguito assurto a icona rappresentativa di tutta la famiglia.

Mamma mia, in quanti eravamo!

E quanta gente c’era allora nei bassi e nelle case della Petra Chiatta!

Tutti quei vicoli erano stracolmi di vita e di speranza, in seguito maledettamente tristi e deserti, vivacizzati qua e là dal miagolare di qualche gatto ramingo e randagio. Allo stesso modo resistono solo muri scrostati dal tempo e dalla miseria, e un’angosciante solitudine che pervade l’aria di un mondo ormai finito. Restano, e meno male, solo i ricordi, a volte nitidi e a volte annebbiati da liquida commozione.

Che emozioni trasmettevano le varie processioni allietate dalla banda musicale paesana!

Famosa era quella del Corpus Domini, in genere nel mese di giugno, con gli altarini carichi di fiori di stagione e di coperte variopinte per accogliere con devozione l’ostia sacra.

E poi durante il periodo pasquale, quando don Ernesto Scarfoglio, seguito come un’ombra da Raffaele attrezzato con un paniere robusto e stracolmo di uova, faceva il giro delle case per la benedizione.

Non ultimi, ricordo una donnina d’altri tempi, donna Carolina, vestita come una bambola felliniana, e il compagno della sua vita, cioè Peppino detto Tarzan, sempre rumoroso in giro con una radio sgangherata o nuova, appena comperata durante una delle sue ultime dimore in terra di Germania.

Oggigiorno il quartiere a tratti è più abitato e ciò è dovuto all’arrivo di giovani famigliole luzzesi e alla presenza importante di altrettante famigliole giovani di immigrati dall’Est Europa.

E la sera della vigilia di Natale… con l’atmosfera ovattata dal profumo dei broccoli e del baccalà… il fumo dei camini… la tradizionale magia dei presepi… le tavole già apparecchiate e con le letterine sotto i piatti… le campane della chiesa dell’Immacolata che ricordavano la messa di mezzanotte… la presenza dei papà appena tornati da Francoforte, Colonia o Monaco di Baviera.

Ricordo ogni cosa… tutti quei visi, e mi prende la malinconia!

I loro volti ho gelosamente conservato in un angolo del mio intimo: li riprendo tutti ogni qualvolta, e in qualunque parte del mondo mi trovi, sento il bisogno di accarezzare i sogni di un’età che purtroppo è andata via con il tempo.

E proprio in codesto quartiere della Petra Chiatta e nella stessa casa, dove era nato, ho visto mio padre morire.

Francesco Dima "Tra sogni e ricordi"

Ossia l’epopea romantica dei ricordi che appartengono ormai ad un tempo passato

Di tanto intanto faccio ritorno nei luoghi, dove sono riposti i miei affetti e forse anche i miei sentimenti nascosti.

Stavolta però mi sembra del tutto diverso… questo lembo di mondo una volta custode dei miei entusiasmi giovanili, ora tomba delle mie malinconie!

Difatti mi sembra di tornare e di vagare, perdendo l’anima in emozioni infantili ed eccitazioni adolescenziali. Ripercorro, come sempre, i vicoli allora stracolmi di vita e di speranza, ora maledettamente tristi e deserti, vivacizzati qua e là dal miagolare di qualche gatto ramingo e randagio.

Non incontro nessuno… e non c’è nulla!

Solo muri scrostati dal tempo e dalla miseria, e un’angosciante solitudine che pervade l’aria di un mondo ormai finito.

E fanno male anche i ricordi, che riaffiorano alla mente tumida di sensazioni, che imperlano di liquida commozione gli occhi.

Quanta gente c’era una volta nei bassi e nelle case di questo rione, dove abitano ancora i miei genitori!

Anche Bruno non c’è più… portando con sé parte di noi.

E non ci sono nemmeno bambini… loro caldi e pieni di speranza come l’alba della vita. Gli unici bambini sono Fausto e Samantha, i figli di Loredana.

Poi, se volgo lo sguardo verso le Pigne… allora la tristezza mi attanaglia ancora di più: non posso dimenticare il luogo dove, bambino, raccoglievo il muschio per il presepe e verso il quale scorazzavo i miei orizzonti nei lontani pomeriggi autunnali, intento a studiare il greco e il latino.

Non c’è proprio nessuno!

Forse per questo le sere di natale non somigliano più a quelle della mia infanzia.

Allora le porte si aprivano e non si chiudevano… il rumore della gente che passava… il vociare dei bambini… i profumi dei broccoli cotti sulla brace o del baccalà fritto… il fumo dei camini che rendeva l’atmosfera ancora più calda… l’incantesimo del presepe… il rintocco delle campane dell’Immacolata per la messa di mezzanotte… le tavole al completo di papà tornati per l’occasione da Francoforte o da Monaco di Baviera.

Il nostro mondo era questo… pieno di poche cose e forse di felicità!

Come la sera della Befana… quando si aspettava con ansia spasmodica l’arrivo di quella vecchietta senza età in una notte magica, in cui si credeva alle favole del vino, dell’olio o degli animali parlanti.

Sembrava tutto irreale nell’innocenza di un’infanzia senza tesori e senza ricchezze. L’unica ricchezza era costituita da quelle valigie nostalgiche che andavano e tornavano, come un ritornello, da e per Raunheim allora tanto lontana e per noi ancora incomprensibile.

Si sognava… nelle calde sere d’estate… sul lastrico delle pietre ancora bollenti… mentre da Serra Civita arrivava un cupo latrar di cagne fameliche o un lontano nitrir di cavalli.

Ed io, chierichetto nella Chiesa di Sant’Angelo (pure questa dimenticata da Dio e dall’uomo), mi recavo, con l’incenziere, tra una casa e l’altra a trovare fuoco presso quei camini dalle fiamme infernali oppure nascoste da una cenere grigia e moribonda.

Li ricordo tutti quei visi… e mi prende la malinconia!

In seguito non li ho visti più… forse se ne sono andati via quasi tutti… e oggi li rivedo intatti su quelle fotografie senza tempo, dal sorriso amaro, nel luogo dove il dolore ti consuma e ti fa piangere.

E proprio lì dentro frugo emozioni e sentimenti che non servono per niente a guarire le mie nostalgie.

E a Maspalomas di Gran Canaria, sede delle mie vacanze invernali, mi è giunta notizia che, quando tornerò a fine anno, non troverò più Emma, anche lei un pezzo importante nel mosaico dei miei ricordi, da tempo non abitante più in quella zona. I rumori e le luci di quell’angolo di mondo quella sera non bastarono a spolverare dal mio animo errante e toccato una patina di tristezza e di oblio… Forse Concetta avrebbe fatto meglio a farle finire la sua vecchiaia, insieme con Umberto, in quella casetta accanto alla nostra, invece di portarla lassù, in cima a quel colle lontano.

Per questo ormai non si annusa più da quelle parti il profumo dei sughi di festa o dei taralli pasquali.

Che peccato!

Poi, salendo verso la piazza… non troverò più cumpari Micuzzu tagliarsi la barba, fuori l’uscio di casa, nelle gelide mattine invernali… anche lui è andato via con la sua grande dignità e la sua saggezza.

Ma quanti non ne vedo ormai più! Qualcuno lo ricordo… altri no…

Non posso non ricordare Totonno, cantore della musica popolare e delle serenate ormai sparite, con il suo mulo e i fedeli cagnolini, avviarsi rumoroso verso Marinova.

Comunque, nonostante tutto, vi farò ritorno ancora… magari con i capelli sempre più tinti d’argento dal tempo e con gli occhi sempre più verdi del sognatore.

Francesco Dima  "Sabato di primavera"

 

Cioè un compendio di sacro e di profano nello scenario di una terra che sento ancora mia

Ho lasciato Roma nel primo mattino del venerdì di una settimana santa ricca di ricordi persi ormai nel tempo.

Perciò non ho avuto modo di essere presente alla Via Crucis al Colosseo, dove ognuno, a modo suo, riesce ad assaporare sentimenti ed emozioni universali in un turbinio mescolato di lingue e idiomi provenienti da ogni parte della terra e con lo sguardo, estasiato, rivolto verso quella figura bianca dominante lo scenario storico di una Roma imperiale, che tutto il mondo ci invidia.

E purtroppo anche stasera diserterò la veglia pasquale nella Basilica di San Pietro, dove il vecchio e malato papa polacco capitanerà, spesso con notevoli sforzi, una cerimonia a dir poco entusiasmante e coinvolgente.

Ebbene… ho fatto ritorno nella mia terra, dove le tradizioni e i riti della settimana santa riescono a trascinare anche le coscienze più incallite, risvegliando sensazioni ataviche e infantili.

Questo sabato santo dell’anno 2003, stamattina, ha un risveglio particolare… al di là di quelle colline verdi e immobili accenna ad affacciarsi un tiepido sole, mentre l’odore acre del fumo, proveniente da un camino di una delle tantissime case di questo centro storico meraviglioso, riporta la mente ai mattini dello stesso giorno della fanciullezza ormai lontana. Allora tutto era dominato da entusiasmi sinceri e innocenti di un’età che, ahimè, resta nei ricordi… oggi, invece, un velo di malinconia appanna e arrugginisce l’anima, ma è meglio non perdersi nelle nostalgie già adesso… certamente non mancheranno i pretesti durante la processione.

A questo punto bisogna fare in fretta… fra non molto si comincia ed io sono ancora dentro casa a trastullarmi tra elucubrazioni passate e illusioni mattutine.

Difatti tutto è pronto ormai nella vetusta chiesa dell’Immacolata… gruppi di sbarbati giovincelli in tunica bianca scalpitano nelle prime posizioni per incollarsi statue lignee pesanti e senza tempo… delle vispe ragazzotte rubiconde o esili per scelta, tutte con il corpo fasciato da “fratini” di color rosso o celeste, si accordano diligentemente intorno ad un Cristo morto coperto di veli… mentre sotto la magnifica statua dell’Addolorata un nutrito manipolo di trentenni, quarantenni e giù di lì, rigorosamente anche loro in tunica bianca e con una corona di spine sul capo, avrà l’onore di portare per le vie di questo paese calabrese il simbolo centrale della Passione di Cristo… tra questi scorgo la sagoma abbondante di un Nunzio Sammarro sempre presente e generosamente partecipe.

Nel frattempo l’orologio del campanile di San Giuseppe scandisce le ore otto e un quarto e così don Franco Fiore suggerisce, per i pochi presenti in chiesa, mentre tanti altri sono già fuori sul sagrato e aspettano con ansia, gli ultimi consigli per “fare una buona e devota processione”: possibilmente seguire in silenzio, evitare di fare spuntini vari e di fermarsi di qua e di là per bere un bicchiere.

Finalmente si parte… tutti in fila e con la ben collaudata Banda musicale, magnificamente diretta dal maestro Pepe, che si esibisce con un ritmo strettamente in linea con l’evento del giorno.

Ognuno cerca la posizione migliore, mentre proprio davanti l’Addolorata vedo il vecchio mio padre, anche lui in tunica bianca, portare una croce, il cui peso dividerà durante il percorso con Biagio Durante, nel segno di un voto antico o recente, ma a me sconosciuto.

In un baleno si lascia il Timpone e si arriva al Casalicchio… il cammino inizia la salita, ma non molla nessuno, siamo appena agli inizi… anzi, noto che più in là un gruppetto di “pie donne”, devotamente scalze, con voce sana e decisa recita un rosario dalle litanie mai ascoltate.

La cava dei cappuccini non sembra poi così faticosa da scalare… e tra un canto e l’altro il sagrato antistante la chiesa di Sant’Antonio ci accoglie per prendere fiato, mentre le ugole robuste e ipertrofiche di giovani signore, dalla faccia molto familiare, strillano con tono superbo “qual di donna che piange il marito”. Dopodiché ci si immette sulla strada della Sila… un verde esplosivo copre le colline adiacenti… e finalmente si riesce a scorgere la testa di questo serpentone umano in fila con una croce, sorretta devotamente da un uomo in tunica bianca che fa da battistrada. Di tanto intanto il rumore strozzato e antico di una piccola toccara rompe il silenzio in una dimensione quasi surreale, mentre uno sparuto nugolo di vigili urbani cerca di contenere il flusso, in modo da non sconvolgere più di tanto il traffico automobilistico. Che malinconia… fra loro manca, e per il secondo anno ormai, la presenza e la frenetica dedizione dello sfortunato Franco Molinaro, ancora in attesa di chissà quale miracolo medico o divino.

Nel frattempo le note dolenti degli strumenti musicali e i canti di rito di voci, che si perdono nel tepore di questo mattino d’aprile, ci accompagnano tra i tornanti che sfociano nei pressi della restaurata chiesa di San Francesco, dove ormai un mare di gente si accoda a una processione da non dimenticare. Sì, perché questa del sabato santo è la processione dove nessuno vuole mancare e dove ognuno, ricomponendo i cocci dei propri ricordi, ritrova pezzi di vita passata e ai quali rimane saldamente aggrappato anche se si vive a Roma, Genova, Johannesburg, Rio de Janeiro, Francoforte sul Meno o Monaco di Baviera.

Personalmente posso dire di aver partecipato a processioni indimenticabili in Spagna e in Portogallo, ma questa di Luzzi ha un sapore diverso, forte, senz’altro ancestrale… nemmeno la Via Crucis al Colosseo o le cerimonie pasquali in San Pietro riescono a proiettarmi emozioni ancora più toccanti.

Cerchiamo di nascondere, per timidezza, codesti sentimenti affogati e con un nodo alla gola si prosegue il cammino; si arriva così al Pietrarizzo, dove il fiume umano raggiunge la sua massima dimensione e un sole, già abbastanza alto, riscalda e fa da cornice a questo scenario d’altri tempi.

I musici della Banda sono lontani, ma le melodie, cantate e spesso sussurrate da queste imperterrite e instancabili donne, risuonano sempre martellanti e magnifiche, facendo da colonna sonora ad un film che puntualmente viene girato ogni anno e che non ha bisogno né di regista e né di scenografo.

Quanti volti conosciuti e senza nome… non ci si vede da decenni!

Mia sorella me ne indica uno in particolare, ma per me è difficile pescare tra i ricordi di un passato molto remoto: le linee dolci e sorridenti degli zigomi appartengono a Silvia Palermo, sempre affascinante e per niente toccata dal tempo, che non incontravo da circa quarant’anni. E in questa atmosfera, a tratti un po’ salottiera e poco religiosa, arriviamo alle Conche… superiamo l’antica piazza, quindi intraprendiamo lo slalom tra le strette viuzze del Rummanco, la discesa verso via Roma, fino ad arrivare alle prime case di un Pedale laborioso e pur sempre intrigante nel dedalo di vicoli, che non hanno nulla da invidiare a quelli più rinomati e turistici delle medine di Marrakesh o di Fez. A questo punto cominciamo a godere dei profumi provenienti dalle pentole già sui fornelli… e ci accorgiamo di aver raggiunto la Pietra Piatta, caratterizzata da stradine e strettoie impervie, anche queste testimonianza assoluta di un centro storico magico, ma, ahimè, in certe zone abbandonato, dimenticato e per certi versi degradato.

Ora non ci resta che affrontare l’ultima asperità… la chiesa dell’Immacolata è lassù… la processione pian piano sta per concludere e tutti aspettano l’ingresso dell’Addolorata che, come di consueto, viene accolta nella sua dimora in un tripudio generale.

Le lancette dell’orologio hanno da poco superato le ore undici… la chiesa ormai è stracolma… entrano anche coloro i quali stavano in coda… molti sono i volti che hanno una lacrima da offrire al silenzio… la commozione pervade per un attimo l’animo di ognuno… ma ormai tutto è finito e così si fa ritorno a casa con il proposito e l’augurio di rinnovare la presenza anche per l’anno che verrà, con nell’animo e negli occhi un mattino da non dimenticare.

Francesco Dima  "Venerdì Santo 2018 a Luzzi"

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Sono trascorsi ormai quaranta anni da quella sera di un Venerdì Santo , era l’anno 1978, perso in un tempo giammai dimenticato. E stasera sono rientrato nei luoghi della mia infanzia e della mia giovinezza…e la nostalgia mi attanaglia e mi avvinghia come un serpente boa. Non riesco per niente a nascondere sentimenti sopiti ma mai spariti dal mio animo.

E rivedo ogni cosa al posto di allora!

Intanto l’orologio segna quasi le ore 21.00 e la chiesa dell’Immacolata è pronta per l’omelia delle famose Sette Parole di Gesù.

Ebbene si comincia.

Dagli scanni laterali un nugolo di giovani esordisce con “ O tementi dell’ira ventura”, tratto dall’Inno Sacro “La Passione”  di Alessandro Manzoni.

E’ meraviglioso! Le emozioni imperlano di liquida commozione gli occhi, il mio è un pianto interiore e profondo, mentre la mente vola verso gli anni di una giovinezza che a stento riesco a ricordare. Quelle voci…e queste note sono le stesse…l’eleganza canora di Luciano Altomare, la potenza del timbro di Gerardo Possidente, il pacato e melodioso Luciano Durante, gli interventi quasi strillati a tal punto da far tremare i muri della chiesa stessa di Michele Malizia, o di Ciccio Panaro, oppure, e non per ultimo, di mio zio Bernardo Dima, l’organista-signore Mariano Rendace e altri ancora. Mi si riaffiorano alla mente figure lontane e mi rivedo bambino quando, chierichetto in codesta Chiesa, scorazzavo i sogni e le speranze infantili.

Le melodie e i canti sono gli stessi che questi fantastici ragazzi luzzesi propongono in questa fresca serata di marzo. Ed io,forse, preferirei addormentarmi in sogni africani a codesto dolce sentire di parole superbamente sussurrate oppure gridate e allo stesso tempo cullate dalle note toccanti e struggenti di un organo magistralmente accarezzato dal virtuoso Diego Ciardullo.

A questo punto mi corre l’obbligo di menzionare i componenti il gruppo che stasera faranno da cornice, con il loro canto, alla cerimonia centrale della settimana santa.

Loro sono: Andrea Crocco, Antonio D’Orrico, Umile Fasuolo, Maurizio Favorito, Giuseppe Gioia, Franco Lupinacci, Maurizio Lupinacci, Pierluigi Molinaro, Giuseppe Pingitore, Francesco Rago, Ivano Sena, e infine i neofiti e già promettenti Antonio Dima e Francesco Giuseppe Pingitore.

L’atmosfera diventa quasi eterea ed un silenzio tombale domina la scena religiosa fino  quando la bella e nitida voce del tenore Lupinacci  e il Coro si esibiscono nel Proemio “Già trafitto in duro legno”.

A questo punto don Pasquale Traulo, parroco unico e coraggioso nell’impegno gravoso del restauro di tutte le chiese di Luzzi e delle annesse canoniche, introduce la liturgia e presenta il Padre Predicatore, tra l’altro suo compaesano. E’ don Pierluigi Porco di Carolei ancora fresco  di ordinazione sacerdotale.

PRIMA PAROLA: “Padre, perdona loro”.

E’ una richiesta di perdono da parte di Gesù, come se volesse giustificare i suoi aguzzini. Padre, perdona perché non sanno quello che fanno!

Interviene subitanea la voce magnifica del tenore Franco Lupinacci intonando con sicurezza : “Questi al colle del Golgota adduce”, seguito poi dal tributo determinante di un Coro che non ha nulla da invidiare a coloro che hanno fatto e scritto la storia del canto religioso in tutte le chiese di Luzzi. Questi ragazzi oggi rappresentano con onore e con entusiasmo il presente e, si spera, il futuro di questo settore della cultura del nostro paese.

La chiesa, in questa notte senza luna e senza sonno, non sembra quella delle grandi occasioni…la ricordavo gremita in ogni posto…forse il tempo non certamente primaverile avrà scoraggiato non pochi. Comunque lo scenario resta pur sempre suggestivo e queste giovani ugule continuano imperterrite nel loro cantare.

SECONDA PAROLA: “Oggi sarai con me in Paradiso”.

La salvezza che Gesù opera in ciascuno di noi è oggi. E questa è la follia di Dio, ossia è il paradosso di Dio stesso.

Tocca alla voce del tenore Lupinacci introdurre : ”Ah! Di me ti ricorda”. Voce robusta e sempre magnifica la sua che termina con “tu verrai oggi stesso con me”.
 

TERZA PAROLA: “Donna, ecco tuo figlio”.

Una scena meravigliosa tra un figlio morente che si preoccupa della madre.

Chi è Maria sotto la croce? E’ il punto di congiunzione tra il compimento dell’Antico e l’inizio del Nuovo, ossia la nascita della Chiesa.

Viene ora specificata la maternità della Chiesa stessa e risalta la grande dignità di questa donna sotto la Croce.

E Lupinacci, seguito poi dal Coro, con decisione canta: “Madre augusta che a piè della Croce”.

QUARTA PAROLA: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Gesù viene abbandonato sia dal suo popolo che dai suoi discepoli. E’ un fallimento totale. Viene ora abbandonato dalla vita stessa. Per questo c’è l’abbandono in Dio, nelle mani del suo Dio e lo fa nella sua lingua:”Eli, Eli, lama sabactani”.

E in questa atmosfera di dolore immenso il tenore Giuseppe Gioia e tutti i Cantori proseguono con :”O mortales, lacrimate”.

Il loro ora diventa un tripudio di voci e di suoni, mentre io vorrei abbandonarmi a codesto cantare e magari prendere sonno tra cuscini vissuti e mai toccati.

QUINTA PAROLA: “Ho sete”.

Questo desiderio manifesta l’umanità del Salvatore, un bisogno primordiale dell’uomo. Gesù affronta la sua Passione da uomo e, secondo Giovanni, Gesù sulla Croce manifesta e precede la stessa Pentecoste.

“Quale giglio appassisce lo stelo” replica ancora Lupinacci sempre energico e determinato. Ormai è un susseguirsi inarrestabile di emozioni quasi ancestrali.

Che canti e che suoni detto alla maniera leopardiana!

SESTA PAROLA: “CONSUMMATUM EST”.

E’ compiuto! E’ quasi l’ultima parola di un Messia che ha compiuto la sua missione. E’ un grido trionfale. E’ compiuta l’obbedienza al Padre e viene compiuto il comandamento dell’amore. In tal modo si compie il desiderio di Dio di venire ad abitare nello spirito dell’uomo.

Anche i Cantori restano disorientati su ciò che sta accadendo sul Golgota, ma in un baleno si ridestano e strillano: “L’alta impresa è già compiuta”.

SETTIMA PAROLA:”Nelle tue mani consegno il mio spirito”.

Detto questo, Gesù spirò.

In questa espressione Luca coglie la speranza dei morenti. Gesù si consegna nelle mani del Padre e ciò afferma la paternità universale di Dio.

E l’eclettico tenore Ivano Sena con la sua voce “nera” e ondulante ribadisce: “Jesus autem, emissa voce magna, espiravit”.

E’ questo l’epilogo e i Cantori, ancora svegli e vispi, si scatenano alla vecchia maniera con “Tomba, che chiudi in seno il mio Signor già morto” e quindi a seguire con “Ai tuoi piedi, o bella Madre,verso pianto di dolore”.

Per me diventa un po’ difficile restare attento e lucido: il mio interiore è massacrato da un turbinio frenetico di sentimenti che non sanno parole. E in flash-back mi si presentano nitide e incancellabili le immagini delle varie fasi della mia esistenza più recente…l’interessante e straordinario lavoro presso l’Istituto Superiore di Sanità in Roma…le continue escursioni lavorative in tutto il mondo…aerei, hotel…il mio correre per strade sconosciute da maratoneta incallito…il ricordo inalterato nel tempo dei miei genitori e di tutti i familiari…non ultimo il pensionamento dal lavoro..tutto, tutto sono riuscito a lasciare con devozione sotto quel manto nero in questa chiesa. E codesto paese calabrese l’ho portato in ogni dove con e dentro di me e stasera , forse, sto cercando di rimettere insieme, se possibile, i cocci dei miei ricordi, che a distanza di decenni diventano tremendamente dolci.

La funzione volge al termine e cominciano a scorrere i titoli di coda…don Pasquale congeda l’assemblea, rimandando tutti alla liturgia che l’indomani, Sabato Santo, precederà la leggendaria Processione dei Misteri.

Ed io me ne torno a casa in silenzio, ma con il cuore gonfio di malinconia proprio come un cavallo che galoppa nella notte ed infine si aggrappa alla propria criniera.

Ma quelle voci e quei suoni, con in primis quella del super-tenore Franco Lupinacci, unitamente a quelli di mio cugino Nino Montalto e i suoi Briganti, me li terrò stretti e li custodirò gelosamente in un angolo del mio intimo…li tirerò fuori e li ascolterò ogni qualvolta sentirò il bisogno di sognare e, perché no, anche di piangere.

Roma, 13 aprile 2018.

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