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Marcello Malizia - Pensieri

Venerdì Santo

 

Se provi a tuffarti nel mare dei ricordi di tanti anni fa e a gettare l'amo per vedere se c'è qualcuno che abbocca più degli altri ti accorgi che ci sarebbe l'imbarazzo della scelta per il semplice fatto che tutti hanno o avrebbero diritto ad essere rappresentati. Tutti vantano diritti rispetto ad altri da far valere. E allora ti acconci a riesumare un ricordo che più degli altri in questi giorni ti fa rivivere l'atmosfera di tanti, ma tanti anni fa.

E' il venerdì Santo dei primi anni "50 ed è una bella giornata: cielo azzurro, clima tiepido, per le strade del mio paese si sentono gli odori e i profumi dei fiori dai colori che fanno capolino dai balconi delle case luzzesi e aspettano di fare da sfondo alla giornata particolare che si sta per svolgere fra non molto per le strade della Luzzi, austera povera e pulita.

E' questo il giorno della Settimana Santa che amo particolarmente rievocare, giorno in cui, ormai siamo grandetti, ogni cosa assumeva un significato particolare e distintivo della vita di un paese che usciva dalle macerie della guerra e davanti a sè si dipingeva un avvenire meraviglioso.

Soltanto oggi mi rendo conto del cammino fatto, delle privazioni, delle sofferenze alle quali si sono sottoposti i miei compaesani per rendere più bello un paese, che visto in quegli anni non prometteva tanto avvenire meraviglioso.

Erano quegli anni, i primi anni "50, i primi anni che cominciavamo a vivere con una qualche consapevolezza e ogni nostra azione era consona con gli insegnamenti che avevamo appreso vivendo onestamente in famiglia. Tutto procedeva a meraviglia, non fantasie per la testa, mai una preoccupazione ai nostri genitori, l'infanzia e l'adolescenza erano vissute con la più grande naturalezza possibile. Tutto quello che sarebbe successo dall'adolescenza in avanti erano conquiste graduali e consapevoli. Mai sopra le righe. Gli sguardi che ci scambiavamo con le ragazze erano di una innocenza alla quale soltanto oggi, dopo averne passate tante, si vorrebbe ritornare e goderne come il naufrago che ha attraversato mille traversie per approdare alle spiagge della vecchiaia rasserenante e rasserenata.

Per i vicoli del paese un andirivieni di giovanotti e di giovinette tutti agghindati per come lo consente l'austerità dei tempi, ma sempre dignitosa nella sua povertà. Che è appena ostentata.

Anche i più piccoli sciamano portandosi dinnanzi al Sagrato della Chiesa dell'Immacolata in attesa che si formi la processione che dovrà rappresentare al popolo luzzese la Crocefissione di Cristo, che si svilupperà per le vie del paese.

Le statue, chiamate anche misteri, saranno portate in giro da piccole confraternite di giovanetti, vestiti di bianco e una corona di spine a cingere la testa,tessera in tutto conformi a quelle dei più grandi, che porteranno la statua dell'Addolorata, la Croce, i chiodi, la lancia con la punta insanguinata e l'asciugamano tutti simboleggianti gli ultimi momenti della vita terrena di Cristo.

Intanto le signore dell'Azione Cattolica, quelle più disinvolte e attrezzate di spirito d'iniziativa, vanno mettendo ordine nella marea della popolazione luzzese, radunatasi vociante, che vuole partecipare all'evento, tanto atteso per un anno.

Che volete queste erano le attese e le piccole vanità della vita, per le quali ci si dava appuntamento la mattina prestissimo del Venerdì santo.

E così fra un mistero ed un altro le Signore dell'azione Cattolica disponevano le coppie di giovanetti che, cantavano le lodi del Signore ed anche le canzoni lamentose che si intonavano all'evento. Si formava un lunga teoria di popolazione dai vestiti dai mille colori, perché in quel giorno si voleva onorare l'avvenimento coi vestiti più belli e più puliti. In quel tripudio di gesti e di canti osannanti si distinguevano i volti dolcissimi e puberali delle giovinette che facevano sfoggio del loro vestito più bello con l'intenzione evidente di far colpo sui giovani, che avevano fatto durante le giornate precedenti. Le vie dell'innamoramento sperimentano mille modi per manifestarsi, e quello era uno dei momenti più attesi. Poteva essere, e per molti versi, era l'occasione della vita. Altri modi d'incontro per le giovinette non c'erano. O se c'erano, bisognava proprio volerli e crearli. Si sa che per queste cose l'inventiva non difettava. Non guastava in quell'occasione, quasi unica, la fusione del sacro con il profano.

La processione, formatasi dopo tanti sforzi e dopo tante false partenze, finalmente prendeva l'abbrivio e iniziava ad avanzare su per le strade strette del rione del Casalicchio che portavano alla Chiesa del convento dei Cappuccini. Dove la statua dell'Immacolata sostava per qualche minuto ad imitare una specie di visitazione della Chiesa. A questo punto la teoria della processione, dopo aver toccato la parte più alta del percorso, si lanciava in una specie di corsa giù per la strada della Sila per presentarsi con una certa puntualità alla Chiesa di S.Francesco di Paola. Dove era attesa da altra popolazione che, un poco più pigra, si era alzata più tardi.

Arrivati a questo punto, dopo aver percorso più di un quarto del percorso, si scendeva per la famosa Viarella, stretta e ripida, alla strada nuova o "Pietrarizzo" e da quel punto si risaliva la strada fino alla Savuca e da lì alla Chiesa di S. Giuseppe.

Durante questo percorso molte mamme, preoccupate perché i figlioli per la fretta di partecipare alla processione si erano dimenticati di fare una piccola colazione, raggiungevano la figliolanza e la provvedevano di un piccolo ristoro, anche perché il tragitto da fare era ancora molto ed era giusto che fossero rifocillati.

Sul Sagrato delle Chiese visitate dalla processione, ed erano tante, perché Luzzi aveva anche questo privilegio di essere sede di molte parrocchie e parroci, c'erano ad aspettare la teoria dei misteri i famosi "cantori", quegli stessi che avevano cantato la sera prima nella Chiesa Madre dove si era svolta la predica del Giovedì Santo, schierati e pronti ad intonare i canti della Passione.

La processione, dopo aver doppiato la Chiesa di Sant'Angelo avendo passato prima la Chiesa Madre, imboccava la strada che, attraversando il rione di Santa Venere, si portava per il Timpone, dopo più di cinque ore, alla Chiesa da dove era partita. Qui la statua dell'Addolorata, sistemata sul piedistallo, veniva fatta segno a benedizioni e ringraziamenti da parte della popolazione, soprattutto femminile, e trovava finalmente pace. Dopo tanto peregrinare.

Si erano fatte su per giù le 11,00 della mattinata e la processione si scioglieva lentamente e la gente esitante si dava appuntamento alle funzioni religiose del Sabato Santo.

Oggi, e da molto, le funzioni si svolgono con aggiustamenti che non rispecchiano quelle più antiche, meglio del mio tempo, quando ragazzo, insieme ai miei compagni di quartiere, partecipavo con grande interesse allo svolgimento delle funzioni della Settimana Santa.

Ogni anno, quando arriva questo tempo, mi viene naturale di ricordarmi, anzi devo dire avverto l'esigenza di ripercorrere con la memoria quello che fu un evento dei più belli della mia infanzia e della mia adolescenza.

Ecco, arrivato integro e sano sia pure con qualche acciacco, e chi non ne ha, all'estremo della vita, quando la memoria ha lungo corso e poche aspettative da coltivare, un ritorno al passato appare salvifico in mezzo a valori che non rispecchiano il nostro modo di vivere. Semplice e morigerato.

Forse mi sono dilungato molto e sono convinto che molte cose che meritavano più attenzione sono state omesse, non volutamente.

Mi fa sperare nella vostra bella disposizione a leggermi il bene mai celato per la mia Luzzi. Di una volta, sì... Ma anche di questa, bella e splendida, come si conviene ad una stupenda giovinetta.

Quando la casa dei nonni si chiude

Questa mattina mi sono imbattuto, per la prima volta? non saprei, sul sito Atmosfere del passato, e devo essere sincero che sono stato colpito per una lettera che un signore/signora ha postato, intitolata: Quando la casa dei nonni si chiude.

Dire che è stata un pugno nello stomaco è dire pochissimo. È qualcosa che va al di là dell'immaginabile. Il solo titolo ti mette dinnanzi alle tue manchevolezze nei loro confronti, e sono state tante, chi non lo ammette, dovute tutte alla spensieratezza dell'età che non si sofferma per come si dovrebbe alla grande opportunità che la vita offre ad ognuno, quando superata l'età dell'infanzia e dell'adolescenza, cominciamo a doverci confrontare per la prima volta con le scelte che saranno le prime e le più combattute. Quando la parola amorevole di chi ci è passato prima di te ti offre la soluzione più ovvia che tu nemmeno potevi immaginare. E un ancoraggio sicuro. Soluzione che poggia sull'esperienza che il nonno o i nonni vogliono suggerirti per aiutarti ad uscire dalle prime difficoltà che incontri.

E allora quando non ci sono più e quando anche tu avrai toccato i limiti di questa benedetta età, e lo dico sinceramente, senti e ti accorgi, se ci pensi, che la voce di tuo nonno stentava a farsi riconoscere fra le tante che si affollavano intorno a te, ed era quella che più delle altre ti parlava disinteressatamente per il semplice motivo, perchè non voleva che tu divenissi preda delle tante sirene che promettevano e promettono ancora oggi meraviglie ed incanti, pronti a dissolversi come le tante altre illusioni della vita.

Si dice da parte di molti che il bene si apprezza quando non c'è più. È proprio così, e lo dico amaramente.

A me non è toccato di vivere nel paese mio e dei nonni e quindi di prolungare la loro frequentazione perchè, poco più che adolescente, ho lasciato i luoghi, dove avevo trascorso la mia fanciullezza e parte della mia adolescenza, per inurbarmi insieme ai miei in cerca di migliore fortuna.

I nonni, sia paterni sia materni, li ho perduti che ero ancora adolescente. Ma ho potuto sperimentare il loro bene in tante occasioni di quella età. Sono stati sempre prodighi di consigli, sempre pronti ad asciugare la lacrimuccia che spuntava fra le ciglia, allorchè nostro padre o nostra madre per qualche mancanza o sventatezza ci facevano sentire la pesantezza delle loro mani. E sì, una volta si ricorreva molto facilmente allo scapaccione e al mestolo per punizione, ma poi tutto si risolveva fra le braccia amorevoli dei nonni, che quasi per miracolo si trovavano sempre presenti in quelle circostanze.

Ho vissuto la mia adolescenza, come anche i miei compagni e i miei coetanei, nelle ristrettezze del tempo, che sembravano non dovessero finire mai, ma ricche della presenza delle persone care.

In una immaginaria gerarchia di persone alle quali guardare con riverenza e rispetto, i nonni occupano indiscutibilmente il primo posto.

Fra le tante cose che ho appreso dalla loro familiartià assidua e quotidiana è stata la liberalità, il darsi in ogni occasione senza nulla mai chiedere.

I nonni erano, e sono tuttora, lo scrigno dal quale attingere ogni cosa sia materiale sia soprattuto spirituale, cose che predisponevano e devo ritenere predispongono all'accettazione del prossimo senza infingimenti.

A loro va il mio ringraziamento se sono riuscito, poche volte in realtà, a non rattristarli.

Ancora oggi, che ho raggiunto la bella età dei quasi ottant'anni, li sento vicini che mi dicono, che mi sussurrano con quel loro fare discreto e amorevole delle persone di una volta, che non mi hanno mai dimenticato e in questo modo, forte della loro presenza sicuramente spirituale, mi accingo ad affrontare con maggiore fiducia quest'ultimo scampolo di vita che mi è rimasto.

Sto da qualche momento ascoltando una vecchia canzone delle Piccole ore, Voglio amarti così, e mi vengono in mente, affiorando con piacere, ricordi che se ne stavano in un canto della mia anima e che aspettavano soltanto il momento propizio per farsi avanti e tornare a rivivere. E quanto piacere ho provato abbandonandomi tutto nel ricordo di anni dimenticati e devo dire che ho ritrovato con gioia, sia pure passeggera, a noi vecchi solo questo è concesso, i vecchi sentimenti che hanno riempito la vita della nostra giovinezza ormai lontana e che sembravano persi per sempre. Ecco basta un attacco di una canzone nella quale ci riconosciamo per riempire la giornata di nuove iniziative, illudendoci che la vita che dobbiamo ancora vivere sia lunga e prodiga di tutte quelle cose che non siamo riusciti a compiere e portare a compimento. Ma nonostante la realtà s'incarichi ad ogni istante di ricordarci che il tempo sta per finire imperterriti sogniamo. E così deve essere. D'altra parte il lungo cammino percorso è lì a testimoniare l'impegno che abbiamo messo in ogni nostra azione adempiendolo per intero e sopportando anche, perchè no, gli insuccessi di che è costellata la vita di ognuno. L'importante comunque è essere rinati, non lasciandoci abbattere. E' facile diventare preda dello sconforto quando i risultati non sono congrui con le aspettative che avevamo prefigurato. Mi vengono in mente i versi di un frammento di Archiloco che invitano il poeta a non starsene chiuso rintanato in casa e di uscire all'aperto e a relazionarsi con gli altri, dando così un senso alla vita che pretende tutto ciò. Ah! la poesia che cosa non sa fare: sa essere elegiaca parenetica satirica, anche comica. Sa in una parola esprimere tutti i registri di un'anima che pulsa e vuole interessarsi di tutto, e perchè no, anche della musica. Unica fra le arti, immateriale, e perciò stesso, pura. In un mondo in cui abbiamo perso tutt'insieme i grandi valori che l'uomo aveva elaborato e costruito. In cambio di che cosa poi?

Dolci ricordi

 

Ripropongo in questa sede quello che ho scritto, come resoconto per me, qualche tempo fa, in occasione di una rimpatriata avvenuta il 29/03/2018 e alla quale ho partecipato con entusiasmo, sperando che avrei rivissuto piacevolmente momenti della mia vita di tanti anni, ma tanti anni fa.

Pensare che avrei rivisto vecchi amici e compagni di infanzia e di adolescenza mi aveva messo addosso, come dire, un "friccicore" che si è subito spento, allorché si è toccato con mano quali modificazioni avesse provocato il tempo non solo sull'ambiente scenografico del mio paese quanto anche sulle nostre persone.

Inutile dire che essendo uomini di mondo non ci siamo lasciati travolgere dalla commozione, e così l'incontro è proceduto per come avevo immaginato: abbracci con i vecchi miei compagni, pacche sulle spalle, complimenti per come si era superata la bella età dei settanta. Tutti abbiamo la stessa età. Siamo più che ultrasettantenni. Ma in fondo all'animo rimaneva qualche cosa di insoluto che non voleva dileguarsi e che non so ancora oggi definire a parole. Una sensazione che non tutto quello che era stato espresso era quello che avevamo fatto vedere, che avevamo nascosto qualcosa che non bisognava far apparire, quasi che si avesse pudore di manifestarlo. E questo magone mi ha accompagnato per tutto il tempo trascorso a Luzzi.

A distanza di qualche tempo penso di aver risolto il male che mi aveva attanagliato e del quale avevo ritegno a parlarne. Cioè a dire il ricordo di tutte quelle persone con le quali mi ero rapportato negli anni della mia formazione e che adesso, a quel momento in particolare, non c'erano più e dei quali misuravo la perdita.

La mestizia che ha aleggiato per tutto quel giorno l'ho superata soltanto quando, rientrato a Rende, ho messo a fuoco i ricordi dei miei parenti degli amici e delle persone con le quali ero stato in dimestichezza. Finalmente avevo capito qual era la causa che mi teneva l'animo così in sospeso. E per farmi perdonare, quasi che fosse possibile, ho scritto queste poche parole nella lingua più bella, dopo il greco, il Latino. Quasi a rendere omaggio alle persone che non ci sono più e con le quali ho trascorso il tempo più bello della mia vita;

"Quantum mutata ab illa civitate, quam adhuc adulescentulus reliqui, nuper annum agebam decimum septimum: sine ulla dubitatione pulcherrima, immo divorsa.

Hic manserunt meae recordationes et dulces sodales.

Quisque nostrum, postea, cum vita imposuit nobis optiones eligendas, suscepit itinera divorsa ut, feliciter, exitum bonum haberet et ita nos dilapsi sumus, sed magno cum dolore. Tandem, post multos atque longos annos, obviam ivimus nobis et milia felicitationum inter nos fecimus, admonens alius aliud.

Omnes quidem suis optionibus contenti et felices. Nequibat aliter esse. Sapientia, quam annis adepti sumus, nobis suasit nimium retinere.

Tamen occasio commoda et idonea fuit: visitavi vicos, illos in quibus ludens transii meam pueritiam. Sed quam divorsos veni: gallinae per vias non una, totum elegans. Multae personae deficiebant meae vocatui, anni frustra non transierunt, neque frustra transeunt.

Veteres sodales quibuscum egi adulescentiam non sunt. Habitant sepulcretum.

Hunc locum tenent etiam mei parentes e propinqui et consanguinei..Vale atque vale.

Quanto mutata da quella città, che ancora giovinetto lasciai.

Da poco avevo compiuto sedici anni. Senza dubbio bellissima, in verità diversa. Qui rimasero i miei ricordi e i dolci compagni. Poi ognuno di noi, quando la vita ci obbligò a fare le scelte, intraprese vie diverse per dare felice esito al corso dei giorni, ma con grande dolore ci lasciammo.

Finalmente, dopo molti e lunghi anni ci siamo incontrati e ci siamo scambiati mille felicitazioni: chi richiamando alla memoria una cosa chi un'altra. Né poteva essere diversamente. La saggezza ci ha persuasi a non dilungarci troppo. Tuttavia l'occasione riuscì bella per ciascuno. Visitai i quartieri nei quali passai la mia adolescenza, Ma com'erano diversi, tutti immersi nel silenzio, per le vie nessuna gallina. Tutto ordinato. O quasi. Molte le persone che non risposero alla mia voce. Gli anni non passano invano. Vecchi compagni con i quali passai la mia adolescenza non ci sono più. Abitano il cimitero.

Questo luogo tengono i miei genitori, i miei parenti e i miei consanguinei". Addio e addio.

Rispettiamo la Natura
 

E' domenica 26 giugno. Qui a Rende si scoppia per il caldo che non molla, come si dice, la presa. Anzi le previsioni non promettono nulla di buono. Ci vorrebbe una modesta irruzione, per esempio, di aria fresca proveniente da latitudini settentrionali, che ci faccia assaporare la brezza primaverile, che quest'anno ha latitato e abbiamo desiderato tanto, quasi che ci abbia voluto avvertire a come sarà infernale questa estate che, astronomicamente, è appena iniziata. E per come stanno andando le cose chissà quando ci lascerà e ci permetterà di fare pace con le prime giornate dell'autunno, quelle settembrine, che tanto bene una volta facevamo all'uomo.

La Natura ci ha privilegiato, non so per quanto ancora, facendoci nascere in una zona climatica, che potremmo dire e definire il non plus ultra delle zone in cui i meteorologi hanno diviso e dividono il globo terraqueo, assegnandoci alla cosiddetta zona temperata, quella speciale dove una volta era possibile dividere l'anno, e aveva un senso, in inverno primavera estate ed autunno. Ma da quello che sentiamo e vediamo non ci vorrà tanto tempo per finire in quella tropicale.

È bastato un secolo di consumismo sfrenato, sempre in nome del progresso, perchè questa suddivisione andasse a farsi benedire.

È da troppo tempo che si susseguono estati calde, precedute da altrettante primavere calde, sicché riesce sempre più difficile dire con certezza quando inizi la bella stagione. O meglio quando termini questo caldo che ci sfinisce e non ci dà tregua.

Possiamo ricorrere a tutte le utilità che il progresso fornisce a piene mani, ma ricorrendovi non facciamo altro che peggiorare la situazione, per cui per un quarto d'ora di refrigerio saremo costretti, quando sarà e non ci vorrà molto tempo per sperimentarlo, se continuiamo così, a fare a meno della stagione autunnale ed invernale. Non siamo lontani dal ritenere che si affermerà un'unica stagione, quella estiva, e saranno guai per tutti.

E non è che questo sovvertimento non ha fatto o non farà sentire il suo effetto: già da alcuni decenni si sta dicendo con fatti alla mano che la temperatura della Terra si sta alzando a poco a poco, ma inesorabilmente.

I primi segnali si avvertono e si vedono quando ci si reca nelle alte zone delle Alpi e qui è possibile vedere come i ghiacciai si stiano ritirando. E tutto questo per la stupidità umana. Meglio dire per l'ingordigia dell'uomo di fare sempre e comunque profitti, scaricando nell'atmosfera grandissimi quantitativi di anidride carbonica che alimenta il cosiddetto effetto serra. Fenomeno che non permette la dispersione dei gas nocivi con spaventoso attentato alla salubrità dell'aria.

La foresta dell'Amazzonia, che la Natura aveva provveduto ad assegnarle il compito di polmone del globo perchè assorbisse l'anidride trasformandola in legno, comincia a dare segni di cedimento per gli incendi dolosi che si consumano con ritmi incalzanti per sottrarle vasti territori da destinare agli speculatori.

Operando l'uomo in questo modo che volete che il clima proceda come nei secoli scorsi? Nessun altro è colpevole di questo scardinamento delle regole climatiche, se non chi dovrebbe esserne geloso custode.

E così assistiamo impotenti a questi cambiamenti climatici che si infittiranno col passare degli anni. Con danni che già si avviano ad essere irreparabili.

C'è in giro buona gente che si dà da fare per il rinsavimento della parte minoritaria dell'Umanità, quella che consuma di più, ma sarà in grado di far cambiare costume di vita a chi detiene il maggiore reddito prodotto a danno dei Paesi del Terzo Mondo? Dubito, e fortemente. L'ingordo è vorace e non conosce limiti.

Odi profanum vulgus et arceo;/favete linguis. Carmina non prius/audita Musarum sacerdos/virginibus puerisque canto.(Odi III,1/4). Odio il volgo profano e lo tengo lontano; tacciano le lingue; per vergini e fanciulli, io, sacerdote delle Muse, canto poesia che non fu udita mai prima...

È sicuramente uno dei tanti famosi "incipit" in cui il poeta di Venosa, Quinto Orazio Flacco, fa evidente manifestazione di superiorità(?) sul volgo ignorante che si picca di sapere e si accontenta del poco o nulla che sa. Quando invece la conoscenza vera, quella che ci eleva al di sopra della mediocrità, richiede frequentazione e consumo smodato di candele. E nello stesso tempo, dopo aver elencato le varie condizioni umane, sottolinea il poeta, con grande modestia, di prediligere la sua valle Sabina alle preziose ricchezze dell'uomo avido, e sempre in ansia per la stabilità di esse.

Non ci vuole molto a sottoscrivere questo programma di vita dell'ape venosina; ma quanta modestia e umiltà richiede, in una società nella quale la ricchezza viene sfacciatamente esibita senza ritegno, la scelta di una vita semplice e operosa che assicura tranquillità continuamente insidiata.

Si può essere d'accordo o meno con il programma di vita del poeta Latino, ma senza dubbio l'ode è un invito alla vita specchiata e operosa del buon "civis romanus"(cittadino romano), che ricorda nelle intenzioni del poeta gli "antiqui mores"(gli antichi costumi). Valori sui quali, attraverso i secoli, non tralignando, il popolo romano ha costruito un Impero giammai prima conosciuto, se non quello di un altro uomo straordinario come Alessandro Magno.

Con la differenza sostanziale che il Secondo fu perseguito per la celebrazione di un solo uomo, mentre quello Romano fu perseguito per la grandezza di un popolo.

Al quale dedicherà il famosissimo Carmen Saeculare, cantato da un coro di fanciulli e fanciulle, su ordine dell'Imperatore Augusto nell'anno 17 a.C.n., in occasione dei "Ludi Saeculares".

Puoi dire e fare quante cose vuoi per manifestare un particolare stato d'animo, ma nessuno può dire a parole quello che si prova allorché sotto ad un albero da frutto scopri i primi frutti maturi che occhieggiano tra le foglie e aspettano(?) che delicatamente tu li colga e te ne nutrisca, come la Natura ha insegnato a questo viandante della vita e dell'universo che è l'Uomo.

Questo mi è capitato ieri mattina di verificare, recandomi a Redipiano per rendermi conto se fossero maturati i fichi, ovvero il primo frutto della stagione della pianta chiamati fioroni. A quell'altitudine, 800 m.l.m., i frutti maturano in ritardo rispetto a quelli della pianura.

È stato uno spettacolo vedere come le piante non avessero tradito le mie aspettative. Sulle due piante ce ne erano moltissimi che aspettavano me perchè li cogliessi e li deponessi delicatamente nel paniere.

A dire la verità la prima cosa che ho fatto è stata quella di coglierne e staccarne dal picciolo alcuni che più degli altri mi sembravano maturi. Effettivamente erano maturi, dolcissimi ed invitanti. Li ho assaporati con piacere e mentre li andavo staccando dal ramo deponendoli nel cestino mi chiedevo se questo rituale che compivo da moltissimi anni si sarebbe ripetuto negli anni a venire e in quale modo, se in piena autonomia oppure mangiarli colti dai miei figli. Oppure...

E sì, questi pensieri fai quando partecipi intensamente della Natura. Ad ognuno, al fico al leone come all'uomo, spetta di vivere giusto il tempo che non pregiudichi la vita degli altri esseri. Siamo interdipendenti e dobbiamo dircelo non una ma mille volte perchè non presumiamo troppo. Soltanto se viviamo in umiltà ed in armonia con gli altri esseri del mondo avremo un destino migliore e non già nebuloso e doloroso come quello che stiamo vivendo da qualche tempo. E riusciremo a dare un senso alle cose che intraprendiamo se cerchiamo di mantenerci nei limiti che la Natura ci ha assegnati. Mai valicarli, credendosi chissà chi.

Già i Greci, popolo meraviglioso e rispettoso della Natura fino a deificarla in vari modi per non offenderla, avevano intuito che all'Uomo rispettoso dei suoi limiti era consentito di vivere religiosamente il tempo che la divinità gli aveva assegnato. E se in qualsiasi intrapresa riconosceva a se stesso un limite, superato il quale era giusto pagarne le conseguenze. Per ricordare, e per ricordarselo, avevano coniato l'aforisma "mai nulla di troppo", che corrisponde alla famosa "metriotes" aristotelica e a quello latino del buon Orazio "est modus in rebus".

Quanto ha tralignato quest'uomo, che ha calpestato il suolo lunare, da quello antico!!!

Tutto ciò che di buono ha ricevuto dalla ricerca e per la quale ha investito fior di quattrini l'uomo lo ha indirizzato a far male all'altro suo simile per imporre una supremazia che, per quanto mai pensata ed inusitata, non varcherà mai i limiti temporali di alcune generazioni perchè altre civiltà si affermeranno in questa insaziabile corsa al potere che attanaglia l'animo degli uomini.

Queste cose, meglio questi pensieri mi scorrevano nella mente, mentre, con grande piacere e oserei dire con voluttà, andavo trascegliendo fra le foglie verdissime del fico i fioroni più grossi gonfi e maturi ed ad un tempo dolcissimi. E andavo dicendomi e ripetendomi con forza che ci vuole poco perchè l'uomo trovi quel piacere che la Natura non gli ha mai negato e che sa distribuirglielo durante le stagioni dell'anno.

Voglio ritornare ad una mia visita, fatta questa primavera scorsa al mio paese, che mi aveva e mi ha lasciato interdetto e della quale ho scritto in un mio vecchio post.

Il motivo o la spiegazione sono subito detti: la delusione, o meglio l'accertarsi che la Luzzi che avevo lasciato tanti anni fa, sessanta, non c'è più o quello che è rimasto della vecchia mia cara ed indimenticata Luzzi se c'è, è lì trascurata e dimenticata come si può dimenticare qualcosa che non ti serve, fino a quando non sai come e perché te ne ricordi e allora ti affanni a cercarla, ma devi renderti conto che è andata perduta per sempre. E' così per tutte le cose che desideri. Quando non ci sono più e non ti rispondono, se erano cose o persone animate alle quali eri legato.

Qui abitava un mio parente, più avanti un mio zio o zia, qui un mio vecchio compagno di infanzia con il quale passavo pomeriggi estivi interminabili, giocando a tutto spiano, non conoscendo la fatica e la ripetitività dei nostri giochi che erano sempre gli stessi, ma non per questo meno belli e fantastici.

Qui c'era e c'è tuttora la chiesa della Santissima Trinità, meglio conosciuta come la chiesa di San Giuseppe, fatta costruire dalla famiglia Firrao, a cui si accedeva e si accede per due scalinate.

Chiesa senza dubbio bella, ma ancor di più perché custodisce le sacre spoglie di una giovinetta patrizia romana, Aurelia Marcia.

Spoglie destinate a questa Chiesa per ingentilirla e renderla più rinomata dall'allora protosegretario di Stato Vaticano, Cardinale Cesare Firrao. Oggi? Bella ancora, ma non più accorsata come ai bei miei tempi, quando il mio paese era un centro pulsante di attività le più varie, soprattutto artigianali. Quando in occasione delle celebrazioni della Santa venivano da vari paesi del circondario e oltre i fedeli per onorare un voto, come per esempio i Longobucchesi che attraversavano a piedi la Sila per rendere omaggio e ringraziare la Santa per una preghiera esaudita o per farne un'altra.

Oh! semplicità di costumi, ormai quasi dismessi e che non usano più.

Le celebrazioni di Santa Aurelia ci sono ancora, ma oggi sempre più fievoli e meno coinvolgenti.

Altri sono i pensieri, altri gli interessi.

Siamo più smaliziati, crediamo sempre meno nelle cose che riguardano lo spirito e sempre più ci attrae lo svago e il divertimento. Cose che si praticavano una volta con semplicità di cuore e austerità.

E girando e salendo di rione in rione ho rinverdito, ma con una grande tristezza nell'anima, ricordi che altrimenti sarebbero rimasti sepolti nella memoria.

Di lato, a fianco della chiesa su in cima ad una gradinata per modo di dire c'era l'abitazione dei miei nonni paterni: Concetta e Francesco. Erano a quei tempi anziani ma ricchi di umanità, quella semplice di una volta. Quella che ti accoglieva senza nulla chiedere in cambio, se non altro la tua presenza, quasi giornaliera e ciarliera della quale si beavano e della quale godevi, perché in quelle occasioni s'incaricavano, i nonni, di trasmetterti i legami che univano le nostre famiglie con le altre del paese e del contado.

E cosi ovunque mi recassi, insieme ai miei compagni di una volta, ero sicuro di avere dei parenti, dei conoscenti che se non potevano offrirti quasi nulla ti offrivano almeno la sicurezza di essere sempre al riparo di inconvenienti, che potevano accadere.

Ho attraversato le vie del mio paese con il magone in cuore.

Strade ai quei tempi ricche di parole, di grida di mamme disperate per le piccole marachelle dei figli, dei versi della gallina che aveva fatto l'uovo, o dello scalpiccio degli zoccoli ferrati degli asini o dei muli che trasportavano materiale da costruzione dai piedi del paese a quelli situati più in alto.

Pulsava a quei tempi la vita al mio paese. Ed era un piacere camminarci. Nei vicoli si vedevano le piccole insegne delle botteghe artigianali: sarti, falegnami, calzolai, stagnini, orafi ed altre attività che insieme rendevano la vita del paese viva e vociante.

Soltanto a sera, quando dalla chiesa dell'Immacolata sonava il rintocco vespertino della campana, la vita andava acquietandosi e il mio paese scivolava a poco a poco nel sonno consolatorio e ristoratore dopo una giornata operosa.

Oggi i quartieri della Luzzi vecchia ed antica, se si fa eccezione per qualcuno che ha fatto resistenza al nuovo rimanendoci a vivere perché non vuole staccarsi dalle sue abitudini e dai suoi ricordi, sono avvolti nel silenzio e le abitazioni quelle più malandate spalancano sulle vie e strade le finestre senza vetri, come occhiaie vuote. Le porte, se ti avvicini, cedono ad una piccola spinta. A testimoniare la negligenza e la trascuratezza delle persone.

Padrone assoluto ed incontrastato, il silenzio...

No, assolutamente no! Non era questa la Luzzi che avevo lasciato or sono più di sessant'anni fa.

Il Tempo, questo mostro che tutto fagocita, si è incaricato di sottrarci il meglio della nostra esistenza. Cioè a dire la nostra adolescenza...

L'età del consumismo, ovvero dell'effimero.

Ogni volta che mi capita di leggere o ascoltare, pronunciata da qualcuno, la parola contadino vengo sommerso da una montagna di ricordi che hanno riempito e dato un significato alla mia vita. E dei quali sono orgoglioso. Per un motivo semplicissimo: ho apprezzato la vita all'aria aperta, fino a quando ce lo ha permesso la società dei consumi. Che di soppiatto e a poco a poco ha usurpato quella vita sana e salubre che ora andiamo beatificando, dopo aver fatto di tutto per liquidarla.

A quei tempi, quando ancora al mio paese, la luce elettrica, soprattutto nelle campagne, era una promessa elettorale, si sopperiva all'oscurità della sera con le candele, la dega, la luce a petrolio e, per quelli che se lo potevano permettere, con il carburo.

Eppure in quelle serate fredde e scure e piene di fumo, appena illuminate dalle luci sopra menzionate, c'era un brulicare di lavori ai quali si acconciavano con entusiasmo i nostri vecchi contadini e le mogli, per le quali la fine della giornata sembrava non dover finire mai.

Lavori i più vari, ma soprattutto c'era il senso del recupero e del non buttare al macero nessun arnese che potesse ancora servire. Lo si sfruttava fino all'osso e lo si gettava quando non serviva più.

Tutto passava per le mani del contadino ingegnoso che sapeva trarre tutti i vantaggi possibili da un arnese che giaceva lì in un angolo dimenticato e che mercè la sua intraprendenza e perizia ritornava a nuova vita e a dare soddisfazione a chi lo sapeva usare.

E così era per tutto. In breve la parola consumismo non esisteva e non la si capiva per nulla. Tutto nella vita dei contadini aveva un senso e tutto concorreva a rendere la loro vita meno sacrificata possibile e meno sfruttata più di quanto non fosse.

La parola "economia", ritengo, sia stata inventata in ambito agricolo. E questo per una ragione semplice, vale a dire per la consapevolezza che l'agricoltura fosse la fonte principale dell'esistenza umana e perciò fosse centro di tutte le attività umane, che in essa confluivano, e di tutte le possibili attenzioni da parte dell'uomo giudizioso.

La giornata in campagna iniziava, ed inizia ancora devo ritenere, molto presto. Con il canto del gallo, dopo la mezzanotte. Come si diceva e come si dice ancora, con qualche riserva.

A quell'ora, mentre ancora la famiglia è in braccio a Morfeo, il bravo contadino provvede a tutte quelle opere che sono iniziatiche a quelle vere e proprie della giornata lavorativa, ovvero la lavorazione dei campi, e cioè a dire rifornire di foraggio le mangiatoie degli animali pulire le stalle mungere le vacche e le greggi e portare il latte nei locali, dove la brava massaia nella mattinata si darà da fare a trarre tutti quei prodotti caratteristici del latte: quali il formaggio, la ricotta ed altro. Non c'è pausa, nè può essere diversamente. Tutta la vita della città e del contado dipendono dalla sua operosità che il contadino sedulus (accurato,attento, assiduo ecc,ecc,) assicura sia che nevichi piova o che la canicola cuocia i sassi.

Ho sempre avuto per questa figura di lavoratore un'attenzione ed una riconoscenza grandi. Infatti, grazie a loro, era possibile sedersi a tavola, vestirsi, mangiare le primizie dell'estate e di tutti quei frutti che coltivava e che offriva alla clientela al mercato. Già da quei tempi capivo che senza la loro opera indefessa la vita della città era quasi impossibile.

Da qui a poco a poco intuivo quanto grande fosse l'agricoltura e la sua pratica. Ma con gli anni, quando a poco a poco la civiltà industriale cominciò a prendere piede e a scalzare questa antica civiltà, cominciai a capire come ormai la vita degli uomini fosse cambiata e dovesse uniformarsi ad uno sviluppo che non era consono con la civiltà contadina dell'Italia del tempo.

Si cominciò a guardare alla campagna con disprezzo con sussieguo perchè improvvisamente un frigorifero una cucina a gas la radio e poi il televisore e l'automatismo nelle fabbriche avevano preso il posto della manualità, liberando l'uomo dai lavori più pesanti e più stressanti. Eravamo entrati trionfanti nella società dei consumi il cui simbolo era la macchina che ci permetteva di spostarci per svolgere il lavoro a chilometri di distanza dal luogo di residenza. E non avevamo capito, forse meglio dire eravamo stati indotti a ritenere che quella vita frenetica fosse il paradiso e non già, come pensavano le persone con un poco di sale in testa, l'inizio della fine di una società che nel bene e nel male ci aveva assicurato di che vivere con quel poco che l'agricoltura assicurava ed assicura ad una società in continua espansione. E mai paga e soddisfatta. Non abbiamo capito di avere fatto la scelta sbagliata. Qualcuno dirà che il progresso comportava questa operazione il dovere scegliere fra una società che si attardava a ripetere annualmente le stesse cose ed una società che invece si rinnovava continuamente con grave nocumento della psiche umana. Boriosamente siamo entrati nell'età del consumismo, ovvero dell'effimero. Dobbiamo comprare, comprare e comprare...mai che si pensi alla riparazione di un utensile che viene a costare di più che se lo andassi a comprare nuovo. Perchè così vogliono quelli che ci dirigono. Non scegliamo per stare bene veramente, ma scegliamo ... Beh mi fermo.

Questa mattina vorrei ritornare ad una delle mie letture preferite e alla quale ho dedicato tempo e passione. Che ritengo non siano andati sprecati.

Una passione, quella della lettura, che mi ha sempre attratto fin da quando ero un imberbe studentello di scuola media ed ancora impreparato alle grandi letture, che in futuro puntualmente avrebbero impegnato i miei pomeriggi, soprattutto estivi, quando non sapevo con i miei compagni di studi fare altro che divertirmi.

Che volete a quella età i grandi problemi della vita per noi che avevamo osato tanto, vale a dire intraprendere gli studi, non costituivano necessità impellenti come per altri miei compagni, che, finite le scuole elementari, venivano sistemati in qualche bottega di artigiano per cominciare quell'apprendistato che gli avrebbe garantito il "mestiere".

Noi invece, ed eravamo veramente in pochi, avevamo intrapreso, certamente non di nostra volontà e scelta, quel percorso di studenti che ci avrebbe portato ad uscire, queste erano le intenzioni dei nostri genitori, dallo stato sociale nel quale eravamo. E ci avrebbe assicurato una professione ragguardevole. Così si pensava a quei tempi.

Dicevo delle letture che ci appassionavano e alle quali ci dedicavamo. Erano letture nei primi due anni di scuola media che toccavano argomenti i più vari, ma tutti di distrazione. Di avventura. Quelli più impegnativi, come i Promessi Sposi, I Miserabili, Delitto e Castigo, Resurrezione ed altri titoli ancora, li riservavamo per quando eravamo più grandicelli, vale a dire a coronamento degli studi di scuola media che si concludevano con l'esame di licenza media. Erano i testi che, per sentito dire dagli altri più grandi di noi, ci aprivano la mente e ci preparavano agli studi di scuola superiore.

Ed è proprio allora, dopo il conseguimento della licenza media, che mi dedicai alla lettura di questi grandi dell'Ottocento europeo. ll più delle volte erano delle epitomi, ma alquanto esaustive, di questi grandi romanzi della cultura europea. Romanzi, per la verità che facevano tremare, è il caso di dire, le vene ed i polsi. Ma tant'è: Hic Rhodus, hic salta.

E così cominciai a cimentarmi con autori, meravigliosi e sublimi, come Manzoni, Victor Hugo, Lev Tolstoi, Dostojevskj ed altri che non starò qui ad elencare. Comunque facilmente individuabili.

Ma la lettura che mi appassionò, più delle altre, fu quella dei Promessi Sposi. Anche perché c'era un interesse più immediato, vale a dire che lo avrei studiato in quinta ginnasiale. E sì, perché avevo scelto di iscrivermi al Liceo-Ginnasio "B.Telesio" di Cosenza.

Il testo era veramente voluminoso e poi trentotto capitoli di diversa lunghezza non invogliavano di certo. Ma fatta la scelta..., era una prova alla quale mi dedicai con la preparazione che avevo conseguito alle scuole medie.

Il romanzo mi appassionò subito, e chi non ne è rimasto colpito e a quell'età poi (tredici/quattordici anni), quando eravamo ancora a digiuno di problemi sociali.

La storia delle sopraffazioni che questa giovane coppia di contadinelli dovette subire ci attraeva più delle altre dei diversi romanzi con i quali ci saremmo cimentati in avvenire. E poi c'era anche l'orgoglio nazionale da tenere presente, e poi ancora la fama, meritata, che la lettura del romanzo ci avrebbe istradato verso la bella e scorrevole scrittura dell'Italiano. In verità tutte cose vere. Perché la lettura dei Promessi Sposi del Manzoni era di una facilità e di una scorrevolezza che ci lasciava stupiti già a quel tempo e di più quando, fatti grandi e diventati insegnanti di scuola, lo commentavamo agli alunni ginnasiali. Era ed è sempre nuovo e sempre affascinante. Ogni volta che ti avvicini e lo leggi trovi e scopri qualcosa che non avevi colto ai tempi della scuola. Ma è un fatto: attingi sempre oro dalle vene aurifere di questo testo, a dir poco meraviglioso.

Vorrei, fra le tante cose che potrebbero essere oggetto di interesse, sottoporre alla vostra attenzione uno dei brani più famosi, fra i tanti che si segnalano: la madre di Cecilia. Capitolo XXXIV.

"Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle ad un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo... Portava essa in collo una bambina forse di nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' i capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera penzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza dei volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento..."

Mi si dirà e con questo? Ci sono tante altre descrizioni che prendono e conquistano, come questa, l'attenzione di chi si accosta ad un testo per trarne un qualche beneficio che enumerarle sarebbe impossibile. E sì,' lo so.

Quello che prende, ogni volta che lo leggo, è questa pacata andatura della narrazione che pare volere sfidare la bellezza della descrizione e della delicatezza della scena. Su tutto grava come un lugubre lenzuolo di sofferenza e di dolore che sembra non voler terminare mai, quando all'improvviso a squarciare quel velo di tristezza ecco apparire sull'uscio di una casa una giovane donna con in braccio una bimba morta, e qui, a questo punto la scena si dilata smisuratamente a coinvolgere chi, fino a quel momento per il mestiere che svolge, parrebbe estraneo ad ogni sentimento di umanità, che pare perso per sempre, per il persistere di quel morbo, la peste, che sta facendo strage di un popolo che nulla può contro la fatalità della morte, il monatto. La delicatezza di quelle due figure colpiscono il cuore del mestierante che si affretta a far posto a quel corpicino che la peste ha portato via con sé negandogli gli anni più belli che si prefigurano nella mente di chi si è affacciato alla vita per goderla, ignaro che ogni giorno, sol perché si è venuti alla luce del sole, potrebbe essere l'ultimo. Ma non dovrebbe essere così per chi della vita ancora non ha assaporato le dolcezze e le carezze dell'amore.

Prosegue il Manzoni:

" Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne

esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato." Chi in questo paragone non ricorda Catullo?.

"O Signore!" esclamò Renzo: "esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!"

E chi se non una persona di meccanico affare, come dice il Manzoni, poteva innalzare al cielo una preghiera così intensa, ragionevole e supplichevole nello stesso tempo? Quando il dolore diventa così forte che è preferibile la morte che la vita la preghiera è l'unica ancora di salvezza per tirarsi fuori dalla sofferenza fisica e spirituale, e per augurarla e per augurarsela.

Quando la noia comincia a toccarti spalancandoti ore interminabili di solitudine, ecco: ritornare a letture di tanto tempo fa ti riconciliano con la vita e te la fanno amare ancor di più. E allora tiri da un palco della tua biblioteca un testo, lo apri e trovi quello che fa all'occasione. E così addio alla noia, ti si spalancano le porte della bellezza. Di quella bellezza che l'uomo ha descritto con parole di una delicatezza estrema. A consolazione delle brutture della vita.

E la lettura di una pagina dei Promessi Sposi, e non solo, non costa nulla, semmai ti fa amare di più chi negli anni trascorsi e dedicati all'insegnamento è stato oggetto delle tue lezioni. Cioè a dire gli alunni. Ai quali non ho lesinato, per il troppo bene che gli ho voluto, parole di rimprovero quando me ne hanno dato motivo. E le occasioni per rimproverarli non sono state poi tante. Ed inculcato l'amore per lo studio. Penso che ne hanno tratto profitto, come profitto ne ho tratto io dalla loro frequentazione.

A lettura ultimata, ma ancora più attenta delle molte altre fatte negli anni e più ricca di esperienze mi sono detto e chiesto perchè mai i giovani di oggi non dedicano un'ora, un'ora sola, alla lettura delle molte altre ore che dedicano a digitare sullo smartphone chissà che cosa per elevarsi ed elevare lo spirito a più alti sentimenti che non siano i pomeriggi senza significato, stravaccati sulle gradinate di un centro commerciale ad inseguire che cosa? In preda alla noia, stato d'animo che non sa di nulla, se mi si lascia passare questa arditezza. Prigionieri delle mode che si inseguono senza un attimo di tregua e che stordiscono più di quanto non abbiano fatto quelle dei miei tempi. Siamo stati tutti giovani e tutti presi dal passare qualche ora (dico ora) di svago. Oggi non c'è soluzione di continuità. In qualsiasi ora ti rechi ad un centro commerciale c'è questo stravaccamento, questo accamparsi nei corridoi senza far niente. E la Scuola? Quella seria: quella che abbiamo frequentato noi che poco concedeva allo svago, ma che nello stesso tempo ci spingeva a dare un significato alle ore dedicate allo studio?. Di questa non c'è traccia. Sembra che tutti siano presi e compresi di appropriarsi della denominazione di liceo così e così e così. Inventando anche le discipline di insegnamento.

E allora il vecchio e glorioso Liceo-Ginnasio Classico ospita una sezione di discipline turistiche, di discipline socio-sanitarie e di altro ancora e non sai se sei arrivato nel paese di Bengodi.

La Scuola ha bisogno di serietà e non di mode. Per queste ultime basta scendere per le vie o avvicinarsi ad un centro commerciale e ne trovi a josa. Saranno pure importanti. Ma una società un tantino seria bandisce dalle aule scolastiche tutto ciò che sa di effimero, di superfluo, di passeggero dovendo assolvere ad un compito elevatissimo: quello di formare i giovani e di offrirgli una preparazione che li faccia artefici delle loro professionalità e personalità. Mi pare che tutti, nessuno escluso, abbiamo perso la trebisonda.

Non ci vuole molto per essere un pochino seri.

Impegno e sacrificio. Una volta erano il sale della vita. Siamo in grado di recuperarli?

La nebbia agli irti colli/ piovigginando sale/ e sotto il maestrale/ urla e biancheggia il mare...

E' stata e continua ad essere ancora una bella poesia che imparai a memoria alle scuole elementari, su per giù quando avevo 10/11 anni. Non so di preciso. Ma mi è piaciuta vuoi per la brevità, a fronte di altre, per esempio "Il sabato del villaggio", lunga, vuoi perchè in un quadretto agreste che sapeva e sa di familiarità e di intimità, descriveva ed esternava con precisione un pomeriggio autunnale pieno degli odori del mosto che fermentava nei grandi tini, dell'olio dei frantoi paesani e delle prime nebbie che, salendo dal mare, si impadroniscono della campagna, riposando durante questa faticosa ascesa verso le montagne sui rami ispidi degli alberi, che intanto o hanno reso alla terra le loro foglie o lo stanno facendo. Su questo scenario, che va sempre più assomigliando ad una natura morta, attraversato dai voli di uccelli neri, si posa il pensiero del cacciatore, che è allietato dallo scoppiettare del fuoco che ha acceso perchè il freddo sale anch'esso insieme alla nebbia e bisogna proteggersi.

Composizione semplice e piana, nessuna forzatura a trovare le rime giuste e se ci sono vengono così naturali che aiutano l'apprendimento mnemonico del bambino che si accosta alla poesia, timoroso soltanto di non riuscire nella sua performance.

E con quanta amabilità il nostro maestro delle elementari ce la recitava, con quel suo dire piano e suadente che si insinuava nelle nostre anime sincere e vergini non ancora esperte del mondo. E a poco a poco ci plasmava facendoci innamorare dello studio al quale dedicavamo non molto tempo. Siamo stati anche noi dei birichini.

Ma ricordo con nostalgia le ore che si passavano fra i banchi e le amicizie che si creavano con altri compagni di quartieri diversi dal mio, e tutto questo nasceva e veniva fuori dallo studio, per il quale non tutti erano portati. Come era del resto logico in un momento alquanto difficile del paese che richiedeva da parte dei meno dotati un contributo economico per le famiglie. Che al quel tempo stentavano per la mancanza di un lavoro che salvaguardasse la loro dignità. E insieme, approcciandoci allo studio, dirozzavamo le asperità che ci provenivano dallo stato sociale nel quale era ognuno di noi. I tempi erano difficili.

Si andava a scuola con la cartella di cartone marrone pressato o con il tascapane che era presente in ogni famiglia. Un quaderno a righe, a seconda della classe frequentata, un quaderno a quadretti una matita una penna col pennino di ferro il calamaio e la gomma con un foglio di carta assorbente. Questo era l'armamentario del quale bisognava essere in possesso. E se c'era la possibilità, anche questo bisogna dire, un tozzo di pane senza companatico ed era già tanto. A proposito il sussidiario ed il libro di lettura bisognava comprarli. C'erano alcuni compagni che non potevano permetterseli e allora venivano nelle nostre case a studiare o farseli prestare. Cosa che non si faceva tanto facilmente. Avere i libri di scuola era un privilegio.

Già a quell'età si andava stratificando, o meglio rafforzando una differenziazione sociale dalla quale non era facile uscire. Un retaggio che ci portiamo ancora dietro e del quale non riusciamo a liberarci per pigrizia e mancanza di volontà. Non ci vuole molto a riconoscere nel proprio simile un fratello. Eppure... facciamo fatica a sradicare falsi preconcetti e pregiudizi.

In questi settant'anni e più di democrazia passi avanti ne sono stati fatti, ma il divario fra chi ha e chi non ha incredibilmente si è fatto più largo, quasi a voler rimarcare che la povertà è un fatto endemico di ogni società, anche la più ricca. Ma ciò non toglie che bisogna battersi perché questo scarto venga colmato. Non deve essere soltanto enunciato ma fare di tutto perché tutti possiamo partire dallo stesso livello. Senza differenza di classe. I bambini devono essere tutti eguali davanti alla linea di partenza. Non c'è peccato più grande che accettare così senza una motivazione una discrepanza sociale che grida vendetta. Da millenni. Ma non deve essere un scusa per non fare niente. A scuola dinnanzi al banchetto della cultura dobbiamo presentarci tutti affamati della stessa fame di chi vuole migliorarsi. E ritengo che il povero abbia la stessa fame del ricco. Non ci sono gradazioni. Ha fame di conoscenza. E basta. Sarà poi la vita a separare il grano dal loglio.

Erano queste le piccole cose che riempivano le nostre giornate

Come mi accade da un poco di tempo a questa parte non so mai come inizierò la giornata, se dare seguito alle cose di ogni giorno o rimanere in attesa e a disposizione dell'inatteso che ti salvi e ti tolga di dosso quest'aria di accettazione, quasi cristiana, della giornata uguale e simile alle tante altre che sono già passate e finite nel dimenticatoio.

Parrebbe, perché questo benedetto cervello che abbiamo racchiuso nella nostra scatola cranica non finisce mai di operare. Anzi con più lena cerca di venirci incontro quando pensiamo che sia inutile dare senso e significato ad un'altra giornata che si annuncia, come dicevo, normale, senza spunti ed imprevisti che non siano cose di poco conto.

E così ex abrupto ti riporta a quando eri un ragazzo, come tanti del tuo paese, impegnato nello studio e ti fa rivivere, perché ormai di questo ci cibiamo, i momenti più belli della tua adolescenza. Tutti legati a qualche bricconeria che combinavo insieme ai miei soliti compagni.

Ed improvvisamente mi trovo nell'orto di Zù Binnardu Russo, non so quanti lo ricordano ma non importa, a fare qualche cosa non lecita, come per esempio "rubare" le arance ancora amare e con queste giocarci a lanciarcele uno contro l'altro.

Ma non ce la passavamo sicuramente liscia perché le nostre grida attiravano l'attenzione del padrone, che oziava sempre sulla veranda con poche eccezioni se non quelle fisiologiche, e che immediatamente metteva mano alla sua artiglieria e cominciava a lanciarci contro pietre, che quasi sempre colpivano nel segno. Se si accorgeva che qualcuno era nell'orto.

E allora e solo allora decidevamo di ritirarci in buon ordine, ma giurando che a vincerla dovevamo essere noi e non il padrone. Era quasi una sfida contro Zù Binnardu. Una sfida che ci teneva sempre pronti a cogliere l'occasione buona per attaccare gli alberi di arance dell'orto. (erano, se non ricordo male tre. Ma grandi).

Infatti da un angolo del palazzo Vivacqua, che sorgeva di fronte, spiavamo i momenti in cui pensavamo che il nostro antagonista fosse rientrato in casa per il disbrigo di qualche faccenda personale. E approfittavamo delle poche occasioni per scendere nell'orto e avvicinarci così agli alberi per fare razzia.

Ma si sa che l'adolescenza è ciarliera e in men che non si dica dovevamo battere in ritirata perché sentivamo fischiare intorno alle orecchie le pietre che sempre più numerose ci colpivano e che ci dicevano che non era sempre facile farla franca con il legittimo proprietario. E nello stesso tempo ci dicevamo che non saremmo stati più servizievoli con la moglie "Cuncetta, di tabbacchera", quando capitava che ci incaricasse di andare a fare qualche commissione: come per esempio comprare il sale o lo zucchero, che a quei tempi si vendevano sfusi, in quantità minime, non più di due etti e mezzo. E altre cose che interessavano la quotidianità della vita di una casa.

Erano queste le piccole cose che riempivano le nostre giornate e i nostri pomeriggi liberi dai compiti di scuola.

Non avevamo aggeggi elettronici con cui passare i pomeriggi. Facevamo affidamento sulle invenzioni che si accendevano lì per lì e le seguivamo appassionatamente senza stancarci mai. Fino a quando sfiniti rientravamo a casa, dove finivamo la santa giornata. Santa per modo di dire perché prima dovevamo passare dalle mani dei nostri genitori che per un verso o per l'altro venivano informati delle nostre marachelle. A proposito non ci facevano poi tanto male, anzi costituivano un buon viatico per la nostra formazione. Si sa che nei paesi è difficile farla franca. Le voci corrono veloci come il vento. (Fama vagatur). Che in qualche maniera tranquillizzavano le famiglie sui nostri comportamenti, che comunque venivano ripresi o corretti o con le buone o con le cattive maniere (l'uso delle mani). Non una marachella veniva taciuta. Era un modo come tenerci a bada e sotto controllo.

Eppure qualche volta riuscivamo a farla franca. E le pochissime volte che succedeva era un trionfo. Del quale vantarsi con i compagni e i sodali di quartiere. Ma era una vittoria che durava lo spazio di qualche tempo, perché in un modo o nell'altro i nostri genitori venivano a sapere ogni nostra buona o cattiva azione.

A distanza di tanti anni devo dire che quella educazione, che a torto ritenevamo oppressiva, ha dato buoni frutti.

Insomma era la politica del cosiddetto "quannu ci vò ci vò" e non si tergiversava. E con questo ho detto tutto. Oggi, meglio non parlarne. Con la scusa che bisogna essere meno oppressivi e meno esigenti con i figli tutto si è capovolto. Manca poco che siano i figli a comandare. E con questo ho detto tutto. E qui finisco.

La Chiesetta della Madonna della Sanità

Ci sono certi luoghi della memoria che ritornano insistentemente nella tua giornata e quando meno te li aspetti, o per qualche accidente che al momento non sai definire, si presentano senza che tu vi abbia pensato o avuto occasione di parlarne un minuto prima. È così, e non c'è modo di spiegare il fenomeno. Che poi, detto per incidens, ti fa piacere ricordare o richiamare alla mente. E così è capitato questa mattina.

Scorrevo alcune pagine di Fb e all'improvviso alcune foto, postate da un amico, hanno attirato la mia attenzione, o meglio mi hanno riproposto una località. Che era diventata un'abitudine quand'ero piccolo, cioè a dire la Chiesetta della Madonna della Sanità, in gergo paesano detta della Cava. La chiamavano così perché remota e lontana dal paese ed incassata fra due mezze colline, da cui la Cava.

In questa località era apparsa ad una pastorella claudicante di un piede di nome Lucrezia la Vergine, che, invocata, aveva ridato speranza alla piccola pastorella, sanandola della sua infermità.

In questo luogo la devozione dei Luzzesi ha innalzato con il tempo una chiesetta a ricordo del miracolo e istituita la festa omonima che si tiene la prima domenica di settembre.

Non so come e perché ogni qualvolta vedo questa foto i ricordi di quando ero imberbe mi si affollano nella mente e non so scegliere quello che più degli altri s'impone, perché ricco di significato. E riflettendo a poco a poco tutto comincia a schiarirsi e a ritornare alla memoria con una certa lucidità e così ripercorro all'indietro il periodo più bello della vita di ciascuno: l'infanzia e la prima adolescenza. Che appaiono sempre più sfuocati e annebbiati con il passar del tempo che inesorabile passa e segna per tutti la prima tappa di una vita che ancora deve prendere la sua via e attuarsi.

È l'età della sventatezza, della spensieratezza, dell'incoscienza: L'età a cui si perdona tutto, anche alcune piccole ribalderie che al momento non sembrano tali e che trovavano nella benevolenza dei genitori un'assoluzione che autorizzava però a fare tesoro dell'incidente. E a non ripeterlo mai più. Era la filosofia della gente del tempo. Critica sì, non ne passavamo liscia nessuna, ma non inappellabile.

A poco a poco si entrava nell'età della ragione e in questo cammino sempre impervio c'era d'aiuto il sostegno dei familiari, soprattutto quello dei nonni verso i quali avevamo manifestazioni di amore e di attaccamento oltre ogni dire. In una parola amavamo stare con loro e da loro apprendere quelle tradizioni e quei racconti del nostro paese che costituivano un patrimonio da introiettare e custodire gelosamente con l'impego di trasmetterlo alle generazioni future. Tutto questo, allora, non era chiaro, ma a furia di sentirlo ripetere una cento volte ne diventavamo padroni con un impegno segreto e non confessato: trasmetterlo ai nostri nipoti, come avevano fatto loro con noi.

Chi può dimenticarli!! Anche a distanza di tanti anni, ahimè!

Come si vorrebbe ritornare indietro nel tempo e ascoltare la loro voce ora burbera, perché avevamo fatto qualche cosa che non andava fatta e nello stesso tempo mielosa e comprensiva e che ci invitava a renderci conto delle cose che si facevano.

La lezione che ci tenevano i nonni era quella che rimaneva più impressa nelle nostre menti e che non si dimenticava e non ho dimenticata nemmeno con il passare degli anni, tanto facilmente. Erano sempre parole che illuminavano e ci aprivano alla vita, difficile di quel tempo.

Fa d'uopo ritornare alla chiesetta: era ed è tuttora di piccole dimensioni e per ciò stesso accogliente, infatti poteva e può far posto a una piccola folla di fedeli che all'inizio di settembre accorre per la novena che si conclude e viene assorbita dall'altra festa ma di dimensioni più grandi, quella di Santa Aurelia, martire.

Ci sono stato dopo moltissimo tempo, con mia moglie e mia nipote Margherita, e ho trovato tutto rimesso a nuovo. Della semplicità accattivante dei miei tempi non è rimasto nulla. In compenso c'è maggiore pulizia: un sagrato lindo e circondato da qualche sedile e la vecchia acacia, dalla chioma a ruota, così la ricordavo.

Fa ancora parte della parrocchia della SS,Trinità e come sempre è accorsata durante tutto l'anno. Soprattutto nelle giornate primaverili ed estive. Durante le quali i miei compaesani hanno modo di manifestare il loro attaccamento alla Vergine e qui si recano per pregare e rinnovare la loro devozione.

Mi ricordo che anche noi, quando l'età della adolescenza non si era ancora conclusa, ci recavamo in questa località, volete per fare i chierichetti volete anche per giocare nei pressi di una fontanella che scorreva poco e poco distante dalla chiesetta, ma che era bastevole per placare la sete che ci assaliva dopo esserci divertiti tanto. Ricordo anche che era custodita dal sacrestano che qui insieme al figlio risiedeva accudendo alle piccole e poche mansioni che richiedeva la chiesetta.

A fianco alla chiesa si stendeva la proprietà, abbastanza grande, di un nobile della Luzzi dei miei tempi con i suoi alberi da frutto ed il vigneto che a quell'epoca, eravamo, come dicevo più sopra, a settembre, cominciava a maturare ed invitava con i suoi grappoli, già quasi maturi, ad osare quello che non si doveva, ovvero a "rubare" l'uva. Cosa che puntualmente facevamo incorrendo nelle ire del contadino che la proteggeva la custodiva come si custodisce un tesoro. Ma devo essere sincero, nonostante le ripetute malandrinate, mai dico mai, il proprietario ci denunciò. Aveva messo in conto che doveva pagare così il suo tributo alla Vergine.

Oggi, ritengo, non usa più manifestare da parte dei più piccoli questo modo di comportarsi e di agire. Si ha tutto. Ci sono tante altre occupazioni che tengono la loro mente. Si preferisce passare il tempo sugli smartphone o sui tablet, piuttosto che sui libri o nei giochi della strada come giocare a nascondino, al campo, o scarrozza-cavallo ed altri ancora che non costavano nulla e che riempivano i nostri pomeriggi.

Oggi è tutto diverso: le amicizie fra compagni si coltivano sul pc e quando va male sugli smartphone. Ci si conosce appena, se non fosse che si bighellona fra le vetrine dei negozi lasciandosi accalappiare dalla merce che viene propagandata in mille modi, ma tutti tendenti ad ingannare e a creare bisogni che non esistono.

Il progresso ha cambiato e stravolto ogni cosa, finanche gli esseri umani non sono più gli stessi.

Forse ho esagerato. Ma non vado molto lontano dal vero, quando dico queste cose.

Lo so che sono un sopravvissuto e non posso farci nulla per farmi perdonare questa insolenza e intolleranza.

Siamo vecchi. Apparteniamo ad una classe sociale che ha dato, e come ha dato e per sovrappiù riceve soltanto alzate di spalle e di commiserazione.

Non siamo più al centro degli interessi di una società che guarda alla vecchiaia con supponenza, come per dire: ecco sappiamo fare da soli. E chi mai l'ha messo in dubbio. Ma rimango sempre convinto che un consiglio un'idea possono venire anche da questi vecchietti, che avete messo in un angolo.

È un tesoro grande che non sapete sfruttare ed è una colpa grande di cui vi siete macchiati non so quanto consapevolmente.

Ogni giorno che Dio manda sulla terra, come si suole dire, è una sorpresa, meglio una conferma di quanto l'uomo sia il più cattivo degli esseri viventi che camminano su questo pianeta.

Non c'è essere animato che la mattina si alzi con il proposito deliberato e pensato di fare del male al proprio simile. Esempi? A migliaia. C'è soltanto l'imbarazzo della scelta.

A voler leggere ed ascoltare la Bibbia l'exemplum più classico di quello, fra i tanti, che voglio menzionare è l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino. Non c'è attenuante che possa ridimensionare questo brutale assassinio, come i tanti che avvengono quotidianamente sulla faccia della terra. Perché mai Caino concepisce di uccidere il fratello? Per un solo motivo: ritiene stoltamente che Dio voglia bene ad Abele a prescindere. E non pensa che il bene bisogna guadagnarselo giorno dopo giorno con azioni che commuovano e non aspettare che possiamo ricevere un beneficio se non ci siamo impegnati ed impegnato qualche nostro interesse disinteressatamente. Non devo aspettarmi nulla da una mia buona azione, già il privilegio di poterla fare è di per sé un premio. E questo lo diceva tanto ma tanto tempo fa un signore di nome Seneca. Il quale spese, animato dalle letture di grandi filosofi, la sua vita per appropriarsi della saggezza degli antichi che egli sciorina nelle numerosissime opere scritte ed indirizzate parte a personaggi storici parte ad interlocutori immaginari. Tutte affascinanti e ricche di consigli e utilità per chi voglia avvicinarsi ad esse.

Basterebbe che ogni tanto, nel moltissimo tempo che abbiamo a disposizione nella giornata qualsiasi che ci tocca vivere onestamente, che trovassimo il tempo, sia pure minimo, di leggere qualche pagina di questi grandi dell'Antichità per essere in pace con noi stessi e con l'Umanità in genere. Perché soltanto in questo modo cesseremmo di pensare al nostro simile come al nemico da abbattere e non all'amico con il quale intrattenere rapporti più che benevoli ed amicali. Ed invece nel nostro simile vediamo tutt'altro, in una parola il nostro più acerrimo nemico al quale preparare la trappola che abbiamo preparata per eliminarlo e così mettere in pace sia pure per poco il nostro animo esacerbato dall'ira e dall'invidia. Perché possiamo vivere felici ed in pace abbiamo bisogno di crearci un avversario verso il quale appuntare gli strali della nostra insoddisfazione quotidiana e del non essere in pace con noi stessi e con gli altri.

Sembra strano ma è così. Tanti secoli di buone opere e di buone letture non hanno prodotto alcun beneficio per l'Umanità. Abbiamo continuato a vivere, forse sarebbe meglio dire a convivere,con il nostro smisurato "ego" che mette sempre davanti ad ogni altra cosa il tornaconto personale. Si può sperare in un miglioramento? Stento a crederci. E questo per un semplice ragione: abbiamo bisogno di sentirci nominare, non importa come. L'importante è che il nostro nome corra sulla bocca di tutti: del colto e ... dell'incolto. Preferibilmente.

Nemmeno tre giorni fa imprecavamo all'estate che non voleva arrivare e che si faceva attendere con nostro grande disappunto ed ora che è arrivata, esplodendo con temperature di quasi quaranta gradi all'ombra, siamo qui a lamentarci come se fossimo immersi nel caldo da chissà quanto tempo. L'umanità è incontentabile.

È un'abitudine che l'uomo ha indossato ed indossa, come un vestito, da sempre e che lo accompagnerà fine alla sua fine, quando non ci sarà più nulla da inventare scoprire, che non sia stato già scoperto o inventato. Ed anche allora sarà scontento di tutto quello che possiede come superfluo ed in quantità enormi e che cerca di conferire a discariche che non sanno più contenere lo scarto che è immenso e che è mancato e mancherà poco a sommergerci. Non basteranno gli impianti costruiti, che saranno come bocche spalancate pronte a digerire tutto. E non basteranno nemmeno i voli spaziali a disperdere nello spazio infinito le nostre porcherie. Perché avremo contaminato ogni cosa e non ci sogniamo più di tenere pulito quel piccolo lembo di cielo che ci era stato donato e assegnato, perché lo avremo violentato espandendolo all'

infinito a tal punto che non riuscirà a contenere le nostre deiezioni. E verrà il tempo, stiamone certi, che ce la faremo addosso. Non ci credete? Aspettate e vedrete. Certo non saremo noi ad assistere allo spettacolo lercio e lurido che avremo approntato, ma così sarà.

Da quello che ho appena detto discende il disagio sempre crescente che affronteremo e che ci opprimerà fino a farci impazzire, se continuiamo su questa via di dispendio e di scempio delle cose belle che la Natura, privilegiandoci, ha voluto dare, quasi a volersi specchiare in una Umanità bella ed inappuntabile.

Tutti, dal più grande al più piccolo, ci diamo da fare a sporcare il pianeta senza vergogna e senza scrupolo. Le plaghe sconfinate del terzo mondo le stiamo già ricoprendo delle nostre cose inservibili perché provvediamo con una celerità incredibile a sostituirla con il nuovo, che, se ci fate caso, non basta ad acquietare la sete sempre più insopprimibile delle novità che si è impossessata dell'uomo.

Mai che si risparmi qualcosa: sempre pronti ad acquistare e a rifornirci del nuovo che è prodotto ad arte per impinguare le casse dei grandi monopoli.

Diamo uno sguardo, partendo dal nostro piccolo, in casa nostra e ci rendiamo conto che siamo circondati da tante di quelle cose che non servono più perché abbiamo provveduto a sostituirle con il nuovo, propagandato dalle campagne pubblicitarie che offendono il buon senso. Eppure, a cominciare dal sottoscritto, non riusciamo a resistere alle sirene del nuovo e dell'esotico, che viene presentato e rappresentato come essenziale, quando in effetti potremmo farne a meno. Non è così e non sarà così, perché ci teniamo ad essere al passo con il progresso. Se non saremo noi a tenerci aggiornati con il progresso, vittime ormai di questa corsa infernale che abbiamo innescato, saranno i nuovi parvenus al banchetto luculliano che bruceranno tutte le tappe del loro ritardo. E non ci sarà consumatore più ingordo del nuovo di chi è stato tenuto per tanto tempo ai margini della storia. E saranno guai per noi che abbiamo sfruttato, senza preoccuparcene affatto, la parte più grande del globo. Saccheggiandola ed immiserendola.

Ma quello che più lascia perplessi è stata la facilità con la quale la nostra civiltà ha sostituito i valori sui quali si fondava il nostro vivere civile, primo fra tutti il senso di appartenenza e via dicendo, fino ad arrivare al valore della solidarietà che li racchiude tutti.

Sta prevalendo l'utilitarismo e l'egoismo, valori conosciuti ma non perseguiti, come hanno fatto le civiltà anglofone.

Mi verrebbe di dire, ricorrendo ad una vecchia favola sempre moderna ed attuale, abbiamo cambiato gli occhi per la coda.

Quanto meglio avremmo fatto a resistere ai canti interessati delle sirene del nuovo e dell'attraente, rinunciando affascinati alla nostra condizione umana frutto di tanti secoli di storia. Fatta di cose piccole e facilmente attuabili.

La felicità non consiste nel fare grandi progetti ed inseguire l'inarrivabile, ma in quella più prosaica delle piccole cose alla portata dell'uomo modesto, come aveva ed ha modo di dire l'Ape venosina, Orazio: hoc erat in votis... nella VI satira del libro 2°: possedere un piccolo appezzamento di terra, una sorgente ed un piccolo bosco.

Poteva desiderare ben altro l'autore del Carmen saeculare.

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