Michele Gioia
Giornalista - Poeta - Musicista .
Copertina del Maestro Giuseppe Serra
"La sera della vigilia della festa di Santa Aurelia Marcia, Vergine e Martire".
Un’antica tradizione popolare rivive a Luzzi nella settimana di Pasqua
L’”incanto” dell’Addolorata
Ogni anno tornano numerosi gli emigrati per partecipare alla gara a suon di denaro per aggiudicarsi l’onore di portare a spalla le statue (quella dell’Addolorata soprattutto) nella processione del Venerdì Santo, che in realtà si svolge la mattina del sabato. Una folla strabocchevole nelle strette stradine del paese. Alla fine un’altra gara per il mantello, la spada e la corona che vengono poi conservati in casa.
Tutti la chiamano ancora Processione del Venerdì Santo, ma la alcuni anni, si tiene a Luzzi (Cosenza) la mattina del sabato che precede la Pasqua, quando si pensa ormai alla Resurrezione del Cristo in un clima di festa. Gli esperti di liturgia forse ci spiegheranno i motivi di questa “stranezza” dovuta ad una bizzarra decisione del clero locale. Dopo anni di discussione, polemiche, accuse e contro accuse, non si riesce a ritornare alla tradizione antica, con grave disappunto della gente.
Di origini sicuramente spagnole, la processione rappresenta, ancora oggi, un momento assai significativo, sottolineato dalla presenza di tanti emigranti. I luzzesi che hanno varcato gli oceani e risiedono negli altri Paesi europei e nel triangolo industriale del Nord Italia, o magari soltanto a Roma, sono migliaia. I più fortunati tornano per le feste di Pasqua tutti gli anni; molti di quelli che vivono negli Stati Uniti, in Canada e in America del Sud, hanno già realizzato il sogno di “incantare” almeno una volta nella loro vita, la statua dell’Addolorata. Tanti altri vivono nell’attesa di quel giorno. E già si vedono con il pensiero: vestiti del bianco camice, stretto in vita dal cordiglio con i cingoli; il capo coperto da una corona di spine, sudati e stanchi sotto il peso della statua lignea della Vergine ammantata di nero, procedere, lentamente, negli stretti vicoli dove hanno giocato da bambini. La Madonna indossa il lungo mantello nero trapuntato di stelle; ha il cuore trafitto da una spada; il volto emaciato e pallido; gli occhi rossi di pianto. E’ esattamente l’immagine del dolore a causa della perdita del figlio Gesù. La Vergine Maria è il punto di riferimento più importante per chi decide di partecipare all’incanto che si svolge, nel pomeriggio del venerdì.
Giovedì Santo il simulacro è stato portato dall’Immacolata a Santa Maria dove c’è stata la scena dell’Affruntata (l’incontro, cioè, tra Maria e il Figlio), tra la commozione generale. E nella chiesa di Santa Maria, L’Arcipretura, la prima predica. Venerdì, invece, la predica dei “punti” della Passione e Morte del Cristo nella chiesa dell’Immacolata, dove la statua della Vergine ha fatto ritorno. Ricordo alcune di queste prediche, quando ero ragazzo: la più grande chiesa di Luzzi era stracolma di fedeli. Noi bambini dovevamo accontentarci di sedere ai piedi dei vari altari, o venivamo tenuti in braccio dai nonni, dagli zii, da qualche altro parente. Spesso la gente era costretta a restare fuori dal tempio sedendosi magari sul sagrato. E il predicatore “tuonava” dal pulpito contro i peccatori incalliti, sperando di convincerli. Ma ogni festa unisce il sacro al profano e comunque la liturgia stretta al costume popolare. Ed ecco, quindi, che per l’ “incanto”, si formano di solito due o più squadre di aspiranti che conquistano il diritto di portare a spalla la Madonna, a suon di contanti. L’asta viene battuta fino a quando, per l’assegnazione definitiva, si utilizza un cerino. Le offerte tra i gruppi di contendenti si susseguono allora a ritmo serrato, frenetico, tra le urla del battitore che appena si riescono a sentire, coperte dagli schiamazzi della folla. Qualcuno ci ha visto le ultime manifestazioni di un paganesimo che stenta a morire e qualche vescovo ha tentato di far cessare l’usanza. Ma poi il volere del popolo ha ripreso il sopravvento. Ma, per tornare alla cronaca, ecco che la fiammella del cerino acceso comincia a vacillare nel suo incerto tremore e infine si spegne tra un grido (un ohhhhhh!) della folla dei presenti. E il fiammifero viene gettato via con uno scatto nervoso e un lamento del banditore. Il fuoco, ancora una volta, ha bruciacchiato le dita (il pollice e l’indice) di Franco Rendace, il vigile urbano che, da anni ormai, si esibisce in questa incombenza. Nel salone di casa Arena (la canonica del defunto don Eugenio Arena, parroco dell’Immacolata che aveva fatto i calli, mi racconta mia madre, alle mani, lavorando insieme con gli operai alla ricostruzione della chiesa danneggiata dal terremoto del 1928) altri due personaggi vanno ricordati perché sempre presenti all’incanto: il prof. Francesco Maria Bruno, meglio noto come “Cicciu Brunu”, pittore, poeta, appassionato studioso di storia e delle tradizioni popolari; e Nino Papaianni, il compianto funzionario comunale (scomparso di recente). con il solito sistema dell’asta vengono assegnati gli altri Misteri: Croce Grande, Croce Piccola, Croce Maddalena, Annunciazione, Gesù nell’orto, Gesù alla colonna, il Cireneo, la Spoliazione, l’Ecce Homo “picciriddru” (piccolo, ma pesante perché in legno massiccio, a differenza degli altri gruppi statuari che sono in cartapesta). Per tradizione antica sono riservati ai ragazzi i lampioni che precedono la Croce grande e l’Addolorata. Le ragazze invece portano la “Vara” di Gesù Morto.
Terminato l’incanto, si corre in sacrestia per farsi dare i camici bianchi e i cordigli con i cingoli, che non bastano per tutti. E allora si va a casa per procurarsi le lunghe camicie di lino, tessuto al telaio, a mano, appartenenti alla mamma e alla nonna. Gruppi di giovani, intanto, hanno già intrecciato le piante spinose (strappate lungo i costoni che precipitano a strapiombo fino alla fiumara dell’Ilice) con le quali hanno modellato le “corone di spine” che i portatori dei Misteri si affrettano a comprare.
Non s’è fatto ancora giorno, la mattina del sabato e già le vie del paese si riempiono di voci e di bianche figure. Tutti vanno verso la Chiesa dell’Immacolata che è già ricolma di fedeli. Legate e quindi mute le campane di tutte le chiese, in segno di lutto per la morte del Cristo, nelle viuzze del centro storico il silenzio è rotto dal rumore cupo delle “toccare”, tra cui quella più rimbombante, detta “a martagliu”.
In altri tempi ogni chiesa aveva la sua toccara e il suono di ciascuna lo si riusciva a individuare anche senza vedere lo “strumento”.
L’alba non è ancora spuntata quando il rosario di fedeli si avvia verso il Casalicchio e poi, più su, nella Cava dei Cappuccini, s’inerpica verso la chiesa del Convento, oggi Istituto S. Antonio. Intanto si leva verso il cielo, che già comincia ad illuminarsi dei primi raggi del sole che spunta dietro il colle di “Forcilla”, il canto di dolore della folla: “Gesù mio con dure funi / come reo chi ti legò / Sono stato io l’ingrato / Gesù mio perdon pietà”. Ai canti si alternano le note delle marce funebri intonate dalla banda diretta dal maestro Emilio Pepe che presta servizio gratuito (un contratto con il Comune prevede il servizio retribuito “una tentum” anche per i morti e per il Corpus Domini).
La processione si fa sempre più folta: immensa, strabocchevole. Tanto che le strette viuzze neppure riescono a contenerla tutta. Agli abitanti del centro urbano si aggiungono quelli provenienti dalle popolose contrade del “Monte” e del “Vallo”. Dolci tipici di Pasqua e buon vino fatto in casa (noi ragazzi avevamo sempre le tasche piene di taralli), alleviamo la stanchezza dei portatori che, ormai da qualche ora, stanno marciando, a ritmo lento, cadenzato. Molta energia proviene dai “cuculi”, dolci che portano in cima un uovo sodo. E quando il sole è già molto alto, la testa del corteo sta salendo le scale del sagrato dell’Immacolata, mentre la cosa della processione non ha ancora superato la chiesa di Sant’Angelo.
L’applauso della folla saluta il rientro della Madonna nel tempio a lei dedicato. La banda intona l’ultima marcia sinfonica davanti alla chiesa. E tutti fanno la fila per andare a posare il capo sotto il mantello nero della Vergine Addolorata, chiedendo protezione.
In sagrestia don Franco Fiore offre ai portatori e agli altri presenti i caratteristici “taralli” e un bicchiere del buon vino della terra del padre. Ci si saluta festosamente. Si rivedono persone di cui si era persa ogni traccia e quasi la memoria essendo ormai da anni emigrate in Paesi anche lontani.
Nel pomeriggio un altro incanto assegnerà il mantello, la corona, la spada, i nastri della Madonna (ai quali sono stati appesi con spille di ogni genere, comprese quelle francesi, i soldi – le banconote – da 10.000, 50 mila e centomila offerti dai fedeli mentre la processione attraversava i vari rioni); molto ambiti sono anche i cuscini del Gesù Morto. Le famiglie più “fortunate” le conserveranno, per voto, nelle loro case, fino all’anno successivo, con grande devozione. Ma prima dell’incanto molti fedeli sono stati nella chiesa di San Giuseppe a cantare l’ultima Via Crucis, riservata, per lo più, alle voci femminili. In questi ultimi anni la “Schola Cantorum” ha messo in evidenza la voce di Maria Assunta Cosenza. Ricordiamo tra i cantori defunti don Luciano Durante. Esistono poi le “vecchie glorie” di Luciano Altomare (detto “U Chiochianu”) e Gerardo Possidente ( detto “Mazzarella”). Accompagnati dal mistico suono dell’armonium, “toccato”, con grande maestria, da Mariano Rendace (meglio conosciuto come “Marianu ‘i Donnangiulu, l’organista”) hanno intonato, tra le lacrime, il commovente “Tomba che chiudi in seno / il mio Signor già morto / finch’ei non sia risorto / non partirò da te”. E a stento trattieni in gola la voglia di pianto che ti prende mentre il pensiero va magari al genitore scomparso, all’amico che non cìè più, agli anni più belli della tua giovinezza che se ne sta andando.
E, quasi seguendo la promessa cantata nell’inno di Passione, chi è tornato a Luzzi per la Pasqua, seguirà tutte le funzioni della domenica di resurrezione. E poi anche quelle del lunedì dell’Angelo che sono legate alla tradizione popolare. E se non ci saranno stati lutti recenti, tutte le famiglie andranno a fare “U Pascuni”, la Pasquetta. Mangiando “savuzizzi” e “supprissati”, “capeccuaddri” e “prisutti” e l’immancabile frittata (noi la facevamo in casa mia con le uova di “papara” avendo in casa un’oca comprata tanti anni prima da mio padre al mercato). Fuori casa, all’aria aperta e (magari soltanto all’ “Aria di Panciulla” o nei pressi della fontanella della Madonna della Cava.
Martedì, insieme con i familiari, in macchina, in treno e in aereo, l’emigrante, con il cuore gonfio di commozione e, ormai di tristezza, dovendo lasciare luoghi a lui tanto cari, ripartirà per le terre lontane con la promessa, però, di ritrovarsi a Luzzi al più presto, magari l’anno seguente, esattamente di questi tempi, durante la Settimana di Passione, per concorrere – costi quello che costi – ad un altro incanto.
Michele Maria Gioia
(Gazzetta del Sud – Anno XLI – Mercoledì 15 Aprile 1992 – PAGINATRE – Pag.3)
Il Convento dei Cappuccini a Luzzi e suor Elena Groccia
Storia, ricordi e problemi d’oggi
Una visita dopo trent’anni, provoca quasi il desiderio di tornare bambino ma le parole di suor Immacolata, superiora dell’Istituto Sant’Antonio ospitato nel complesso, si riferiscono a esigenze immediate – Dove tenere i maschietti – L’iniziativa del parroco don Michele Campise e l’Imprimatur nel 1948 del vescovo mons. Rateni.
Sono tornato al Convento dei Cappuccini (ora Istituto S. Antonio di Luzzi, dopo più di trent’anni e ho stentato a riconoscerlo. La nuova Superiora delle “Piccole Operaie dei Sacri Cuori”, Suor Immacolata, di Avezzano, inconsapevolmente, mi ha fatto ripercorrere un viaggio della memoria.
In Parlatorio, dove mi riceve (con me ci sono Tonino Montalto e il prof. Tarcisio Pingitore) accade per me l’imprevisto, il miracolo, l’incantesimo, chiamatelo come volete. Su una parete il ritratto di Suor Elena Groccia mi provoca una rmozione indescrivibile. Torno indietro negli anni e mi rivedo bambino. Rivivo, come in un flash back, uno dei tanti, lunghissimi e pur piacevoli giorni corsi “aru cummientu”.
La scena, per meglio capirla, comincia al “Casalicchio” , quello dei tempi di nonna Angelina che, attratta dalla mia voce canterina, smetteva per un po’ di tessere al telaio aragonese abbandonando la navetta sulle trame tese (stava lavorando ad una coperta a “fasciuni”) e mi veniva incontro sulla porta ricoprendomi di baci rumorosi.
“Michelù” - ripeteva tutte le mattine, puntualmente – nun fa arraggià li monacheddri, ca quannu passi, nonna ti fa truvari li ciraseddra”.
Liberatomi a fatica dall’abbraccio, riprendevo il mio cammino con gli altri coetanei del “Rummangu”. Nelle orecchie mi restava la voce calda della nonna, la sua risata allegra e il suono del telaio che si andava affievolendo via via che mi avvicinavo al sentiero che s’inerpica sul colle e mena, non senza affanno, al convento. Stretto nel mio grembiulino bianco, fresco di bucato, spiavo nel cestino di vimini e m’inebriavo del profumo del pane ancora caldo, appena uscito dal forno a legna di nonna Angelina. La faccia rubiconda, la bocca sempre pronta a schiudersi al sorriso, bianchi capelli, piccolo il naso stampato in mezzo ai grandi occhi chiari, le mani calde, il seno da matrona romana celato a malapena oltre che da una “pittiglia” anche da un largo fazzoletto candido: nonna Angelina l’ho vista sul letto di morte, appena spirata e non ancora fredda, e più tari, regale nel suo vestito di “pacchiana”, squarciato sul retro con le forbici per poterglielo infilare.
Suor Immacolata non sa dei miei pensieri e parla dei problemi dell’Istituto, dei bambini, di tutto quanto ha fatto in questi ultimi anni. “Ieri sono stata a Reggio Calabria con tredici bambini maschi – dice – siamo andati a visitare un Istituto dove questi bambini dovrebbero essere trasferiti. La Madre Generale mi ha raccomandato di trovare una sistemazione per i maschietti. Perché la nostra “Regola” prevede che assistiamo soltanto femminucce…”
-Eh, cara Suor Immacolata, lo so benissimo!
L’8 ottobre 1948 il vescovo di San Marco mons. Michele Campise, consentendo il sorgere della “Pia Casa S. Antonio” che, nelle intenzioni del prete illuminato avrebbe dovuto, inizialmente ospitare 13 orfanelle e 13 donne anziane bisognose di assistenza. Che trovarono sostegno con ciò che rimaneva delle donazioni destinate alla celebrazione di Messe di preghiere in suffragio. “E il primo capitale fu costituito e rimesso per una rendita permanente perpetua depositata da quell’anima ardente e caritatevole che risponde al nome di Caterina Zumpano Possidente, presso l’Istituto per le opere di Religione, Città del Vaticano, in Buoni del Tesoro U.S.A.”
Quest’ultima parte, messa tra virgolette, l’abbiamo ripresa dal libro che il parroco Campise fece stampare dalla tipografia S. Del Prete a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove leggiamo, in ultima pagina che “Mentre il presente Statuto va per le stampe ci giunge notizia che il Dexter St. Phila, 28 PA in “Casa Luzzi 210 E. Haimes St. Gin.” alle ore 2 P.M. del 3 ottobre 1948, ha avuto luogo una prima riunione di Luzzesi allo scopo di aiutare le Orfanelle di guerra, nonché le vecchie più abbandonate, presentemente ricoverata nella Pia Casa S. Antonio non la parte più meritevole di aiuto, provenendo da famiglie bollate dalla indigenza?”
Ci dovrà pur essere una soluzione a questo problema – incalza suor Immacolata – rassicurata anche dall’ attenzione, dall’ interesse che dimostro ai casi suoi che, devo dire, mi sono caduti addosso inaspettatamente. Al Convento dei Cappuccini io c’ero salito per ragioni, diciamo così, meno impegnative: volevo abbandonarmi ai ricordi del passato. Ma, nel Convento dei Cappuccini mi avevano sempre affascinato i racconti, carpiti a brani, dai più anziani del paese, durante la”Tredicina” di S. Antonio, nel mese di giugno (le funzioni religiose dal primo al tredici giugno, ndr), prima e dopo la funzione religiosa, mentre amavo mangiare “li corniceddra” raccolti nei pressi del vecchio cipresso spennacchiato. In questa ricostruzione di un passato che non mi appartiene mi viene in aiuto Tarcisio Pingitore.
Il primo nucleo chiesastico – conventuale dell’ex monastero dei Cappuccini di Luzzi, risale, secondo don Francesco Ceraldi, già arciprete di Santa Maria della Natività, al XIV-XV secolo, opera di alcuni frati provenienti da Castrovillari, per diffondere nel territorio luzzese il culto di San Francesco d’Assisi. Il monastero venne costruito su un colle immediatamente al di sopra del raccolto centro storico del paese. Un luogo, quindi, pittoresco tanto da essere definito “giardino delle delizie” per la felice posizione che invitava al godimento della natura più bella che rigogliosa, cresceva tutta attorno al convento, come si legge in uno scritto del 1859 a cura del sacerdote luzzese don Giuseppe Pepe. Alla facciata esterna della chiesa era attaccato direttamente un corpo tutto “loggiato” per fare entrare la luce nel tempio. Poi altre tre braccia (corpi), con un armonico porticato sul quale sorgevano i “dormitori” dei frati, definivano il chiostro con al centro una cisterna per l’acqua. Sulle mura interne, fino alla fine dell’800, stavano molti affreschi raffiguranti vari frati cappuccini. La chiesa, anche se piccola, una volta era però ricca di opere d’arte in gran parte, ormai, distrutte o disperse. Conteneva arredi sacri, preziosissimi libri, manoscritti, pergamene sambucinesi e dipinti, oltre ad una gran quantità di simulacri tanto che si preferiva chiamare il tempio monastico un “santuario”. L’abbondante dotazione di questi cimeli si verificò nel 1781 quando il vescovo di Bisignano Bonaventura Sculco, divise tra le chiese di Luzzi, la Curia vescovile e quella Vaticana, i beni ecclesiastici provenienti dalla Badia Cistercense della Sambucina. Ciò si verificò per effetto dell’esecrabile decreto del ministro Borbonico Tanucci del 18 febbraio 1780, col quale si decideva di sopprimere la missione spirituale dei Cistercensi della Sambucina di Luzzi, devolvendo tutti i beni della Commendo a favore del Demanio. Il pericolo della Commenda in Sambucina era iniziato nel 1421, consenziente il Papa Martino V.
La chiesa dei Cappuccini. (Ordine appartenente alla Regola Francescana, riformata nel 1525 con più rigorosa osservanza rispetto a quella originale del Santo d’Assisi, con approvazione papale del 1528) all’interno mostrava il suo splendore per la presenza di opere d’arte e manufatti specialmente lignei. Come le cinque statue di San Felice, di Maria Santissima Addolorata, di Gesù alla colonna e di S. Antonio di Padova in due esemplari diversi: quella di dimensioni più grandi – secondo don Giuseppe Pepe – venne eseguita a Cosenza nel 1700 per mano di un anonimo maestro bolognese, evidenziando un aspetto di pittoricità plastica veramente incantevole. La stessa statua risulta poi restaurata nel 1846 da Gioacchino Alessio a devozione di don Ferdinando Vivacqua, il quale si preoccupò pure di far rinnovare quella della SS. Addolorata da un certo Giuseppe Gramo di Rende. La statua di Gesù alla colonna, anche di buona fattura è un’esecuzione della fine del 1700 e si vuole che sia stata importata a Luzzi, da Roma, inviata da un frate cappuccino. Di questo stesso periodo nella chiesa si ammiravano le due tele dell’Ultima cena e di San Francesco d’Assisi di autori ignoti e un’altra di S. Antonio di Padova. Ma ciò che rendeva più palese il significato formale di un artificio artistico-creativo era la presenza del grande tabernacolo, vero capolavoro di arte cappuccina, posto sull’altare maggiore che ancora oggi (conservandosi in buone condizioni) non manca di destare ammirazione. Finemente lavorato con sfarzoso ingegno, concepito a più piani balaustrati tra mirabili intarsi di madreperla le colonnine con la parte finale in alto a cupola. Di magistrale originalità era anche il coro, dietro l’altare, che mostrava la sua pregevole fattura attraverso la disposizione a sfera del colonnato; la ricciatura delle cornici e la delicatezza degli intagli. L’opera fu fatta iniziare da padre Pietro da Mormanno allora superiore del convento, su esecuzione del frate cappuccino Luca da Morano e fu terminata nel 1706 sotto il guardiano Padre Francesco da Mennito. Alla fine del 1700 il convento ospitò il pio sacerdote luzzese, don Biagio Durante (1764-1831) il quale, più tardi, sarà inviato dalla Santa Sede nell’Armenia maggiore, poi a Malta, Palermo e in vari centri della provincia di Cosenza per predicare, in maniera eccelsa, il Santo Vangelo. Il religioso quando era nel convento luzzese scoprì, sotto la pavimentazione tufacea, vari sotterranei e cripte dov’erano sepolti i vecchi frati e cappellani del Monastero. Infine quando nella provincia di Cosenza, nel 1816, furono soppressi vari ordini religiosi (eccetto quello dei Mendicanti, come rileva lo storico prof. Giuseppe Marchese) i due conventi esistenti a Luzzi (Cappuccini e Paolotti) rientrarono nel provvedimento. E i loro beni furono ceduti o venduti. Quelli dei Cappuccini furono acquistati dai signori Vivacqua in un’asta pubblica, nel 1821; mentre i terreni di proprietà dei Paolotti, furono assegnati al comune di Luzzi per pubblica utilità.
Dal passato remoto torniamo a quello più prossimo. Ero venuto al convento per rivivere la mia infanzia, la fanciullezza e il ritratto di madre Elena Groccia avevano contribuito ad accendere in me il desiderio di tornare bambino. Mentre Suor Immacolata parla e raccomanda un intervento dall’assessore regionale alla sanità e all’assistenza il mio sguardo va dagli occhi della suora a quelli di madre Elena, il cui ritratto (una delle poche foto di lei sempre schiva e riservata) campeggia nella stanza e mi trasmette come un fluido salutare e riposante e allo stesso tempo energetico. Sono tentato di alzarmi dalla poltrona e di girare per conto mio attraverso le innumerevole stanze del convento, fino al giardino, alla chiesetta di S. Antonio. Ma Suor Immacolata non demorde: “Mi hanno detto che una commissione dell’assessorato verrà anche nel nostro Istituto. Vengono a ispezionare. Ma che cosa? Venga a vedere quanti lavori abbiamo fatto! Con quanto amore le suore tengono i bambini! Qui abbiamo ammodernato tutto. Sono sicura che lei non riconoscerà più questi luoghi!”
Michele Gioia
(Gazzetta del Sud – Anno XXXIII – Giovedì 13 Dicembre 1984 – PAGINATRE – Pag. 3)
Il culto di Santa Aurelia Marcia nella chiesa di San Giuseppe di Luzzi
Controversie per una martire
Un recente studio del prof. Colafemmina dell’Università di Bari ha messo in dubbio il martirio della Santa ma non sembra aver scalfito in alcun modo la fede popolare . Come le spoglie mortali sono giunte dalle catacombe di S. Sebastiano al centro della provincia di Cosenza – Il cardinale Giuseppe Firrao e l’impeto di nostalgia – L’arrivo dell’urna
Non avrebbe subito alcun martirio Aurelia Marcia, la nobile romana morta, a 19 anni, l’undici luglio, durante la decima persecuzione di Diocleziano (IV secolo – 303 / 305).
A chi appartengono, dunque, i resti mortali, che si venerano a Luzzi nella chiesa di San Giuseppe, fin dal 1744, quando vi furono trasportati dalle catacombe di S. Sebastiano, per volontà del cardinale Giuseppe Firrao (Luzzi 1669 Roma 1744)?
Le affermazioni del prof. Colafemmina dell’Università di Bari contenute nello studio "Un’iscrizione paleocristiana e il culto di S. Aurelia Marcia a Luzzi” se hanno ingenerato dubbi e sospetti su un piano generale, non hanno minimamente influito in coloro i quali /e sono tanti, non solo a Luzzi), ancora oggi amano trubutare alla Santa Martire i segni di una devozione antica spinti da fede imperitura. D’altra parte il Mistero non è stato ancora svelato ed è forse tutto racchiuso nell’ampolla rinvenuta nel loculo che per quindici secoli ha conservato le spoglie mortali di "Aurelia Marcia que vixit anni XVIII defuncta est die V, idus Iulias”, come si legge sulla lapide, che copriva il sepolcro. Secondo il prof. Colafemmina l’ampolla contiene i “liquidi odorosi” ricordati da Prudentio Cath.(10.172), ossia gli unguenti odorosi rinvenuti nei cimiteri romani. Gli agiografi della Santa, invece, sono certi che nel vasetto ovale (phiala) è conservato il sangue di Aurelia Marcia ossia la prova inconfutabile (alla nobile fanciulla fu mozzato il capo dopo atroci tormenti) del subìto martirio. Non avrebbero invece convinto i soli simboli trovati sulla lapide (che ancora si conserva nella cappella della Santa) una colomba che tiene nel becco un ramoscello d’olivo, una torre (o un albero?) sormontata da palme e un leone (o un agnello?) che assale la torre.
Il culto della martire non è venuto mai meno dopo circa due secoli e mezzo, anzi ogni anno che passa sembra ritrovare nuovo vigore. E, come scrisse il poeta luzzese Luigi Genesio Coppa in “Porpore Latine” (S.A.E.D – Alighieri 1936 – XIV) … “or che il settembre ride / d’opimi tralci rosseggianti al sol… / …Dalle cime del Sila aspre ed algenti / scendono a te le schiere montanare: / vince la fede l’urlo dei torrenti, / vince la fede turbini e fiumare.”
In una nota lo stesso Genesio Coppa spiega: “Nel mese delle vendemmie, allietato dai caratteristici canti a voci alternate (a “lassa e piglia”, n.d.r.) delle vignaiole, hanno luogo ogni anno solenni festeggiamenti in onore della Santa e ad essi accorrono numerosi pellegrini dai paesi circostanti (Bisignano, Acri, Rose, Montalto Uffugo, Lattarico, Torano Castello, Cosenza) e dalle più lontane borgate silane (specie Longobucco, Paduli, ndr) e poi dal Rossanese. E’ tradizionale il saluto con le campane agli stanchi gruppi, giungenti a piedi per le disagevoli vie della Montagne”.
Ma com’è potuto accadere che i resti mortali di Aurelia Marcia siano arrivati proprio a Luzzi? Per rispondere all’interrogativo occorre approfondire la conoscenza dei principi Firrao, feudatari del comune in provincia di Cosenza. Diremo innanzitutto di Cesare Firrao (dell’antica famiglia di Cesare, figliolo Tommaso e fratello di Pietro, principi di Sant’Agata) che nacque il 21 giugno 1668 nella “Terra delli Luzzi”, chiamata anticamente “Thebae Lucaniae”, feudo posseduto dalla sua Casa nella Calabria Citeriore, e morì in Sambucina il 9 novembre 1744. Il riferimento a Cesare Firrao, (accademico cosentino, del quale tra le tante cose a lui attribuite si conserva una raccolta di rime, pubblicate in Lucca appresso il Frediani, 1728, con licenza dei Superiori, a cura di Don Tommaso Firrao, principe di Sant’Agata) ci sembra necessario, per meglio far comprendere il clima nel quale si viveva nel 1744, quando, per volontà del cardinale Firrao Senior, le spoglie di S. Aurelia giunsero a Luzzi, laddove c’era l’Abbazia Cistercense della Sambucina, casa madre dell’Ordine nel Meridione.
Nell’introduzione alla raccolta delle rime, (conservate gelosamente dal prof. Francesco Maria Bruno) si legge infatti che Cesare Firrao, dopo essere stato molte volte a Napoli, a contatto con i letterati del tempo, “si ritrovava sovente in un antichissimo monisterio dei Padri Cistercensi chiamato della Sambucina …” celebre per la lunga abitazione fattavi dall’Abbate Gioacchino (che ivi compose buona parte delle sue profezie) come attesta il Padre Elia d’Amato, nel suo libro Pantopologia Calabriae) e per la tomba che in quella chiesa si osserva di Piero Lombardo, Maestro delle sentenze e di Accursio.
Ma torniamo al 1744 agli avvenimenti della traslazione da Roma a Luzzi del corpo della martire Aurelia, ricostruiti dal parroco don Michele Campise e pubblicati nel 1917 a Milano dalla casa editrice Ambrosiana con l’imprimatur del vescovo di San Marco Argentano, Salvatore Scanu.
Del lavoro di don Michele, prete illuminato, si conservano poche copie nella biblioteca del dottor Giuseppe Coppa, già ufficiale sanitario. Don Michele Campise con acume e spregiudicata sincerità, spiega che il cardinale Giuseppe Firrao senior (da non confondere con il nipote, omonimo, anch’egli cardinale e arcivescovo di Napoli nato a Napoli il 23 luglio 1736 e morto nella città partenopea il 24 gennaio 1830), giunto vicino ai 75 anni, nel 1744, fu preso come da un impeto di nostalgia per la sua Luzzi e decise di arricchire una chiesa tutta sua, cioè di jus patronato della sua famiglia, con il corpo della Santa. Di Giuseppe Firrao nella chiesa matrice di Santa Maria (che egli stesso aveva voluto fosse la più importante di Luzzi, avendovi ricevuto il battesimo e che attualmente è retta dall’arciprete don Umile Plastina) si conserva un ritratto che lo rappresenta di viso magro, snello nella persona, con le spalle larghe sulle quali campeggia una testa relativamente piccola, i capelli spioventi e brizzolati, pura e dolce nei contorni dell’ovale e del profilo.
A soli 26 anni era stato introdotto alla carriera prelatizia dal Papa Innocenzo XII. Fu incaricato della vice legazione di Urbino e del governo delle città del dominio pontificio tra le quali Loreto e, più tardi, sotto Clemente XV, Ancona, Civitavecchia, Viterbo, e Perugia. Visitatore apostolico delle provincie dell’Umbria e della Marca. Nel 1714 fu Nunzio straordinario del Portogallo sotto il Pontificato di Benedetto XII. Clemente XII, dopo averlo promosso vescovo di Aversa, lo creò prete cardinale. Nel 1733 tornò a Roma dove fu nominato al posto del defunto cardinale Antonio Banchieri, Segretario di Stato. Partecipò al conclave di Benedetto XIV e, nel 1744, morì a Roma a 75 anni non ancora compiuti dopo 13 anni di cardinalato. E’ sepolto nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme.
Troppi erano stati gli impegni e assai delicati (ne abbiamo citato solo alcuni) perché gli restasse tempo di pensare al piccolo borgo natio, così lontano. Ma prima che la sua schiatta si estinguesse con donna Livia Firrao, principessa di Luzzi che, nel 1815, andò sposa a don Tommaso Sanseverino, principe di Bisignano, venendo, così confuso, il titolo di feudatario di Luzzi, il cardinale volle dare un segno tangibile dell’amore per la sua terra e pensò ad un regalo, prezioso per il nipote don Piero Maria Firrao, principe feudatario di Luzzi dell’epoca, che, avuta la notizia del trasferimento della Martire, la comunicò al cappellano, della sua chiesa di San Giuseppe, don Nicola Zaccano, sacerdote zelante e pio, che iniziò i preparativi per ricevere la Santa.
Su disposizione del cardinale, intanto, il corpo della vergine romana era stato prelevato dalle catacombe di San Sebastiano, rivestito di nobili panni e sistemato in un’urna dorata fatta costruire appositamente dal cardinale che fu portata a Civitavecchia e avviata, via mare, verso Paola. Scrive il prof. Ettore Parise (facendo riferimento alla testimonianza scritta del suo antenato l’arciprete don Antonio Parise) che invano alcuni giovani tentarono di asportare l’urna che giaceva a Paola, sulla riva in attesa che i luzzesi venissero a prelevarla. L’artistico sepolcro diventava sempre più pesante, mentre si trasformò in una piuma quando fu prelevato dai Luzzesi.
All’alba del 2 febbraio 1744 l’urna arrivò, a Luzzi (dove, riferisce don Campise) spontaneamente si formò una processione con le Confraternite precedute da tamburi e altri strumenti, stendardi, bandiere, lampioni, fanciulli e fanciulle e più di 30 preti vestiti di preziosi paramenti e tutto il paese in abito da festa. Vi si aggiunse numerosissima folla formata da abitanti dei paesi circonvicini ed un numero immenso di pastori con le loro zampogne. Finalmente l’urna raggiunse la chiesa di San Giuseppe. La devozione crebbe di anno in anno. Nel 1794, come risulta dai registri, alla Santa furono donate 150 pecore e 120 capre nonché molte vacche, tanto che fu necessario affidarle ad un guardiano. Si formò così la “mandra di Sant’Aurelia” che, per devozione, i Luzzesi lasciavano pascolare dovunque. E non pochi furono i miracoli attribuiti alla Martire. Il parroco Campise ne cita moltissimi con dovizia di particolari, comprovati dalle dichiarazioni sottoscritte dai beneficiati. Con i miracoli si moltiplicarono i doni, consistenti anche in oggetti d’oro, in preziosi di ogni genere, che formarono il tesoro di S. Aurelia.
La chiesa di S. Giuseppe fu danneggiata dai terremoti del 1905 e del 1908, ma sempre, con l’aiuto dei fedeli si riparò ai danni. Il 22 agosto 1909 l’altare maggiore fu inaugurato dal vicario generale della diocesi di San Marco Argentano e consacrato poi dal vescovo Scanu il 24 dicembre 1911, quando fu anche inaugurata la nuova facciata della chiesa con l’orologio. Ma il flagello della Calabria, il terremoto, si ripeté nel 1913 con gravi conseguenze anche per tutte le chiese, compresa S. Giuseppe.
Nel 1934 dopo che ladri sacrileghi rubarono i preziosi ex-voti (il tesoro di Santa Aurelia), al fine di evitare altre brutte sorprese fu incaricato, Salvatore Fazio, un esperto artigiano luzzese, particolarmente bravo nella lavorazione del ferro battuto, di realizzare una cancellata che oggi viene definita una vera e propria opera d’arte. In quell’anno si lavorò per nuovi restauri e vale la pena ricordare che la facciata fu completamente rifatta da maestranze locali. Degne di nota le decorazioni (che ancora si possono ammirare) della facciata, opera del maestro Giuseppe De Bonis, scomparso qualche anno fa. Questi lavori furono fatti a cura del parroco don Settimio Leone il quale poi negli anni dal 1957 al 1966 provvide a rendere com’è oggi la torre campanaria con i quattro orologi che hanno sostituito l’unico esistente sulla facciate, e che era andato in rovina, e realizzò un salone da adibire a casa del pellegrino.
Fecondo fu il periodo di don Settimio ed ancora vivo e indelebile è il ricordo della sua generosa azione pastorale.
San Giuseppe fu poi retta da don Armando Perna, il… “prete santo”… che, dopo morto, a maggio del 1972, fu seppellito a furore di popolo, nella sua chiesa dell’Immacolata.
Trasferito poi al cimitero per volere del vescovo del tempo, don Armando rimane nel cuore del popolo di Dio come esempio fulgente di ascetica spiritualità.
Di lui, artista, restano due affreschi che furono completati dopo l’improvvisa morte del pittore prof. Emilio Iuso e alcune tele, nonché scritti, e numerosi documentari cinematografici. Il tutto è conservato dal prof. Filippo De Bonis, che ha sposato una sorella di don Armando…
Ora S. Giuseppe è retta da don Francesco Fiore, parroco dell’Immacolata. Ammirevole la sua azione pastorale e proficuo l’impegno, la Chiesa è in uno stato di pericoloso degrado. Una richiesta per la realizzazione in locali già esistenti di una “Casa del Pellegrino” e di restauri, giace inevasa da anni presso l’assessore ai beni culturali della Regione Calabria. Intanto le infiltrazioni d’acqua stanno mandando in rovina gli affreschi del famoso pittore di Rose, ma sposato e morto a Luzzi, prof Emilio Iuso. Altrettanto dicasi delle decorazioni (belle da vedere) di cui la chiesa è stracolma. Anche le tele di Diego Pesco (1804) e del più famoso Giuseppe Cosenza (Luzzi 1846 – New York 1922), potrebbero fare una brutta fine. Per fortuna una tela del ‘600 napoletano raffigurante San Gennaro (una di simile fattura si può ammirare al Museo del Prado di Madrid) opera di Andrea Vaccaro (1604-1670) si trova nel gabinetto di restauro della Soprintendenza di Cosenza. Nella chiesa si conservano pure due pilette marmoree del 1700. Sui dipinto del ‘600 napoletano esistenti a Luzzi ha pubblicato di recente uno studio il pittore, prof. Tarcisio Pingitore, Ispettore onorario alle Antichità.
La Chiesa tutta ha bisogno di urgenti restauri prima che sia troppo tardi. E per dirla, di nuovo, col poeta Genesio Coppa: “or che dai poggi in festa si divide / l’alterno canto delle vignaiole, / e risoluta, pria a noi s’invole / la rondinella le sue gronde fide… / del dono, onde a te furon le agresti / genti a disio, le culte in gran dispetto, / grate or desse s’infiorano l’altare”, la tradizione della festa di S. Aurelia, dopo 239 anni, si rinnova con immutato fervore. A conclusione del novenario durante il quale al suono dell’organo si canta il “Viva tutti gridiamo!” (parole del prof. don Domenico Coppa e musicista del suddiacono don Girolamo Russo, entrambi vivi nel ricordo dei fedeli), nell’artistica cappella, don Franco Fiore, ripeterà gli antichi riti della benedizione dell’acqua e dell’olio che tutti conserveranno con devozione nelle loro case. Il bacio della reliquia sarà, per i fedeli, come linfa per affrontare le traversie della vita.
Quando ai festeggiamenti civili (il comitato è ancora una volta presieduto da Raffaele Caloiero), si ripeterà la Sagra della “Pittatasima”, una focaccia che alcune anziane donne prepareranno secondo una ricetta le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Un torneo di calcio, in ricordo di Luigi Gioia e di Giorgio Pingitore, impegnerà i giovani. Lo spettacolo musicale avrà il suo clou con Mia Martini. Dopo la mezzanotte per le vie del centro storico si udrà il suono degli organetti che accompagnerà antiche nenie e balli coreografici. Il tutto nel rispetto della tradizione.
Michele Gioia
(Gazzetta del Sud – Anno XXXII – Mercoledì 31 Agosto 1983 – PAGINATRE – Pag.3)
L'avventura pittorica di Emilio Iuso, da pastorello ad artista di fama
Piccolo Giotto di Calabria
Egli morì nel 1965 lasciando incompiute le sue ultime opere nella chiesa dell'Immacolata di Luzzi: "L'agonia di Gesù nell'orto" e "L'incontro di Gesù con sua Madre sulla via del Calvario" - Anche al culmine degli onori, rimase semplice con i semplici, non dimenticando il tempo in cui pascolava le pecore nella nativa Rose.
Di Emilio Iuso non parla più nessuno. A Rose, suo paese natale, e a Luzzi, dove trascorse gran parte della sua vita, ti ricordi di lui se entri nella chiesa di San Giuseppe (già cappella gentilizia dei principi Firrao) , affrescata da lui nel 1935 (?), o se ti rechi nella chiesa dell'Immacolata dove le sue due ultime opere furono completate da don Armando Perna ( suo compare), il "prete santo" morto il 2 maggio 1972 e sepolto a furor di popolo nella cappella dell'Addolorata e, quindi, per decisione del vescovo dell'epoca, mons. Luigi Rinaldi, traslato nella cappella di famiglia, al cimitero.
All'Immacolata l'emozione è più grande perché nella mistica atmosfera della Cappella del Crocifisso ti basta chiudere gli occhi, sia pure per pochi attimi, per vederlo all'opera il "Maestro", attorniato dai suoi "discepoli", sempre pronti (bastava un suo gesto, un suo sguardo) ad esaudire qualsiasi suo desiderio per non distrarlo nel momento creativo.
I due affreschi, ai lati dell'altare, portano ancora il segno dell'umana sofferenza dell'artista ormai prossimo alla fine dei suoi giorni: non finì le due opere che testimoniano la maturità della sua pittura staccandosi di netto dal resto.
L'immacolata l'aveva affrescata all'età di (18-?) 28 anni e rappresentava per lui e per la critica il segno che la valentìa di Emilio Iuso si sarebbe affermata, come poi avvenne, anche al di là dei confini del "municipio".
L'8 aprile 1965 Emilio Iuso rendeva l'anima a Dio assistito amorevolmente da don Armando Perna. Come questi era nato nella vicina Rose, a un tiro di schioppo da Luzzi, il 27 maggio del 1907. I suoi primi anni di vita sono avvolti quasi nel mistero e mitizzati grazie all'amore che si sprigiona, nella civiltà contadina, dal cuore degli uomini semplici.
In un manoscritto inedito di autore sconosciuto si legge che "Emilio Iuso, nato da modesta famiglia di agricoltori, era intento alle più rudi fatiche dei campi, privilegiando soprattutto la compagnia delle buone pecorelle che menava alla pastura, lungo i margini dei torrenti e nelle campagne di Rose. Seduto sull'erba e sospinto da naturale tendenza, amava disegnare sulla carta e qualche volta sul rozzo sasso, i più significativi e pittorici scenari che le pecorelle offrivano al suo sguardo". La fantasia poetica dell'autore del testo che abbiamo recuperato fortunosamente in casa dei familiari dell'artista, grazie al giovane figlio Giuseppe, insegnante di Educazione artistica e pittore come il padre, si scatena e si lascia prendere la mano quando aggiunge che "egli (Iuso) apparve nella sua dolce e serafica umiltà, avvolto nella sua stessa luce di gloria che accompagnò il grande pittore fiorentino, Giotto di Bondone, perché identiche furono le circostanze per le quali, come Cimabue scopri Giotto, così il parroco di Rose, don (Carmine) Docimo, ebbe ad accorgersi, un giorno, che il pastorello ritraeva, con maestria e con disinvoltura, i motivi boscherecci che la natura gli offriva d'intorno, servendosi di ruvida matita; e, sorpreso non poco, il prete gli si avvicinò incoraggiandolo con paterne parole di bontà."
Dalla probabile fantasia la narrazione passa alla più verosimile realtà. E quanto segue è risaputo e dimostrato e non pochi a Rose lo hanno ancora in mente il fatto che di li a poco don Docimo credette opportuno e doveroso diffondere nel paese le sue impressioni sul Iuso e con l'aiuto di pochi, superando non poche e non lievi difficoltà, dimostrò al giovanetto il suo mecenatismo esortandolo a coltivare lo studio del disegno e della pittura. Riuscì, infine, don Docimo a mandare a Pizzo Calabro il piccolo pittore in erba a fargli apprendere le prime nozioni del disegno ornato e geometrico in una scuola di Belle Arti.
A soli 13 anni aveva dipinto il Martirio di San Lorenzo nella chiesa arcipretale di Rose. Da allora si meritò l'appellativo di "Piccolo Giotto della Calabria". Senza mezzi, fu chiamato a Roma dal luzzese dott. Francesco Cilento, vera anima di artista, vicequestore della capitale, dove fu presentato a numerosi critici d'arte e ammesso nel Cenacolo degli artisti della Città eterna. Era il 1931 e il giovane pittore calabrese si fece notare subito per avere affrescato alcune ville e, principalmente, per avere istoriato qualche sala del Ministero dell' Aeronautica, di recente fondazione, e quelle del nuovo Comando dei Carabinieri, dove si ammirano alcuni suoi quadri.
Ritornò in Calabria nel 1933 e il suo primo lavoro fu la decorazione della chiesa dell'Immacolata: nell'affresco centrale della cupola con l'Assunzione di Maria SS. egli fece rifulgere la magistrale bravura del suo pennello.
Conosciuto da Mons. Demetrio Moscato, (poi) Arcivescovo di Salerno e allora vescovo di San Marco e Bisignano, fu invitato a decorare il Duomo e le cripte di San Marco(la Cattedrale) e il Duomo di Bisignano. In questi monumenti si conservano suoi preziosi dipinti.
In seguito abbellì la chiesa di San Gaetano di Cosenza; la Basilica del Beato Angelo di Acri dove principalmente profuse la sua grande arte; la casa natale di S. Francesco di Paola; la cappella del Seminario e il Coro del Duomo di Cassano Jonio; la sala del trono del palazzo primaziale di Salerno; la chiesa delle Piccole Operaie dei Sacri Cuori di Acri; la chiesa del convento dei Minori di Bisignano; tutte le chiese di Luzzi, (dalla più,antica, Sant'Angelo, a Santa Maria, San Giuseppe, l'Immacolata, etc.); la sala del Consiglio provinciale di Cosenza e numerosi altri luoghi celebrati per la storia e la fede della Calabria.
La sua fama valicò i confini del continente Europa e fu invitato in Canada e negli Stati Uniti (USA) dove si voleva Emilio Iuso per il restauro e l'abbellimento di numerose chiese cattoliche. L'invito gli veniva dalla Santa Sede ma il legame con la famiglia gli fece da freno per cui l'artista non andò oltre Oceano.
Dell'opera di Emilio Iuso si occuparono anche l'Osservatore Romano e numerosi altri quotidiani italiani e stranieri.
Cosicché insieme agli impegni di lavoro a Genova, Firenze, Palermo arrivarono meritati riconoscimenti: Grande Ufficiale della Repubblica Italiana, Commendatore dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro, Commendatore dell'Ordine pontificio di San Silvestro papa e altri.
Stimato e onorato da altissime personalità tra cui ricordiamo il cardinale Tisserant, il ministro on. Gennaro Cassiani, vescovi arcivescovi, parlamentari e uomini politici (il Sen. Militerni) e artisti di tutta Italia.
Degno di nota è l'invito, da parte della Soprintendenza alle Belle Arti di Siena, per il restauro del trecentesco duomo di Orbetello. Emilio Iuso approdò nella cittadina toscana dopo aver vinto un pubblico concorso. Il tempio, come si legge in un giornale dell'epoca, aveva bisogno di urgenti restauri "perché con il passare del tempo e con i danni arrecati dall'ultimo conflitto bellico, il nostro duomo è andato man mano rovinandosi tanto da essere chiuso al culto nel settembre del 1956 perché il soffitto minacciava di crollare. Ma grazie all'interessamento di mons. Fabio Marchetti, priore di Orbetello..." "...il pittore prof. comm. Emilio Iuso sta profondendo la ricchezza del suo geniale talento, d'artista..." "...il prof. Iuso è uno dei maggiori esponenti della pittura sacra italiana e ha dato all'arte sacra una serie di capolavori ammiratissimi".
La morte lo colse mentre stava dipingendo.nella chiesa dell'Immacolata di Luzzi, sede della sua prima rivelazione d'artista, gli affreschi "L'agonia di Gesù nell'orto" e "L'incontro di Gesù con sua Madre sulla via del Calvario". Entrambe le opere si intonano perfettamente con lo stato d'animo di Emilio Iuso in quel periodo.
A 58 anni l'uomo era profondamente prostrato e stanco; l'artista, come sempre, insoddisfatto, e alla ricerca di nuove vie, di originali emozioni, tutto teso a percorrere sentieri "colorati" che sognava di notte e di giorno. Spasmodicamente combattuto tra il suo immenso desiderio di realizzazione come artista e il dovere sentito e mai tradito di essere uomo, padre di famiglia onesto ed esemplare.
In lui c'era ancora il personaggio così lontano per la gente semplice della sua Rose e della sua Luzzi. Specie se lo si incontrava, per le strette viuzze del centro storico, "ammantato" nella sua "divisa" di Cavaliere del Santo Sepolcro. Eppure, nello stesso tempo era così vicino, tanto caro e tanto amato, se vestiva abiti borghesi e aveva per tutti una parola di saluto, in dialetto, quando chiedeva magari degli affanni di tanta povera gente, di cui viveva intensamente le eventuali disgrazie.
L'animo del pastorello non è mai morto. Mai Emilio Iuso ha dimenticato o tradito le sue umili origini anche se a lui erano toccati onori e gloria per riconoscenza dei suoi meriti e come giusto premio al dono che madre natura prima e poi l'impegno quotidiano gli avevano dato. Anche quando vestiva panni di pittore e si arrampicava sulle colossali impalcature necessarie per raggiungere, a guisa di uccello, le altezze celestiali delle cupole dei templi della cristianità e, a prima vista, sembrava irraggiungibile, lontano, diverso, il suo pensiero era per le cose terrene, per la vita di tutti i giorni, per il quotidiano al quale Emilio Iuso quasi sempre si è ispirato per animare le sue maestose composizioni pittoriche. Fino a ritrarre il suo caro compare don Armando Perna, l'arciprete don Francesco Ceraldi, "Angiuliddru 'a Cacchiola", e poi se stesso è il figlio Giuseppe; e ancora popolani e popolane vestiti nei tradizionali costumi della "Pacchiana" e del "Contadino" luzzesi.
Era per lui come un contributo alla preghiera, come una offerta dell'umano al divino, un segno senza aggettivi ma sostantivato della sua fede. Rose e Luzzi non possono averlo dimenticato.
Michele Gioia
(Gazzetta del Sud , Anno XXXIII - Venerdì 29 giugno 1984 - PAGINATRE)